In giro per le Alpi

Estate 1999

di Alberto Pedrotti, albertopedrotti@gmail.com

Totale: 1131 km, 28400 metri, pendenza media 5.02%

Estate 1999. Siamo verso la fine di luglio; si pone il problema di inventare una vacanza di qui a Ferragosto. Per il 31 luglio la SAT di Pergine propone una salita al San Matteo. Per il 10 agosto circa sono invitato dal mio amico Pier Marco Bertinetto a comparire a Viú, nelle valli di Lanzo. Un calendario che sembra congegnato apposta per suggerire il seguente giro.

01. Marter - Àmpola (100 km, 1200 m)

Partenza all'una di pomeriggio, il nuovo per me comincia già a Trento ed è meglio del previsto, in quanto la galleria del Bus de Vela si rivela non troppo velenosa. Alle Sarche ho la favorevole intuizione di passare per Pergolese e il lago di Cavédine, una strettissima strada che serpeggia tra piantagioni di meli, kiwi e prugne. Passato il lago, il paesaggio riarso delle Marocche di Dro mi suscita nostalgie di Corsica. Dirigo poi verso Riva sperando di poter imboccare la strada del Ponale, che poco tempo addietro il giornale Alto Adige dava chiusa perentoriamente anche alle bici. Fortunatamente, se l'ingresso alla prima galleria è sigillato da una rete, provvidenzialente in questa non manca un pertugio. La salita è tutta una scoperta; in alcuni tratti il muretto protettivo della strada incombe con perfetto aplomb sull'acqua increspata da un furioso scirocco e, piú in là, bianca di vele. La strada del Ponale vive ormai fuori dal tempo, però sulla Gardesana Occidentale sembra che l'ANAS e le normative europee abbiano concertato un piano per distruggere questi pittoreschi muretti. A un certo punto c'è il bivio per Pregàsina; a proposito di questo ameno paesino consiglio la lettura del paragrafo "Il contributo di Pregasina alla causa della grappa," nel libro di Marco Simonetti, "La mia grappa," editore Reverdito. In corrispondenza di una breve successione di tornanti, gli oleandri sembrano addirittura volersi mangiare la strada. Presso lo sbocco della moderna galleria che dà accesso alla Valle di Ledro, la strada del Ponale è chiusa da una stanga. Senza il provvidenziale aiuto di un energumeno tedesco dovrei svestire la bici di un po' di bagagli per sollevarla oltre l'ostacolo. Non meno gradita si rivela la fontana a Biacesa prima della ripida rampa che dà accesso a Molina di Ledro, tranquillo paese di mezza montagna, nonché patria del conte Andrea Maffei, librettista verdiano. Prima che a Bezzecca incalzino nuove reminiscenze risorgimentali, costeggiando il lago di Ledro ho tutto il tempo di fare pronostici sulle nerissime nubi che si addensano sopra il Tremalzo ed il Càdria. A Tiarno piove già copiosamente: meglio sfruttare il riparo offerto dall'Atesina, anche se in piena piazza del paese, per far bollire il primo piatto di spaghetti della spedizione. Ripartendo maledico la ruvidezza delle strade ledrensi, non avvedendomi che ho la ruota anteriore libera d'andarsene da un momento all'altro. Pioggia e perplessità meccaniche avallano l'idea di piantare la tenda in un tranquillo fazzoletto d'erba dietro la locanda dell'Àmpola, presso l'omonimo lago.

02. Àmpola - Gavia (157 km, 4500 m)

Discesa lungo la stretta valle di un ignoto torrente di nome Pàlvico. Da Storo poi, tenendomi sulla sinistra del Chiese, raggiungo Bondone e Ponte Caffaro. Si acquista un po' di quota, rispetto al lago d'Idro, fino al bivio per Bagolino, dove devo fare i primi calcoli. Stasera debbo essere al Gavia, e la pioggia di ieri mi ha ritardato. L'idea iniziale era quella di seguire l'integrale della cresta Baremone - Maniva - Goletto delle Crocette - Giogo di Bala - Croce Dominii. Ma, data la situazione, che sia meglio semplificare, tagliando verso Croce Dominii per Val Dorizzo? Dopo un po' opto per la linea dura, ed eccomi ad Anfo, 390 metri, dove inizia vigorosa la salita che porta in 11 km ai 1450 metri del Passo Baremone. Strada splendida per linea, arditezza, esposizione, panorama; avventurosi tornanti aggrappati a ripidi gerbidi e affioramenti calcarei. Dalla carrozzabile di tanto in tanto si dipartono sentieri e mulattiere verso la cresta che scende da Cima Ora al Monte Censo, e di lí con un unico balzo alla Rocca di Anfo ed al lago. La salita è gradevole, regolare; la pendenza non si attenua mai. Al rifugio Rosa al Baremone caffè e chiacchiere con ciclisti locali che di buon mattino si sono applicati a questo cimento. Dopo il rifugio la strada diventa sterrata e si addentra in una breve conca prima di guadagnare i 1521 metri del Passo della Spina, luogo assolato dove mi fermo per asciugare i tendami, che ne hanno gran bisogno e, nel contempo, per godermi con calma la vista sulla sottostante valle del torrente Abbioccolo, dove spiccano i verdissimi alpeggi di Vaiale. La sterrata scende, ricavata arditamente nel fianco meridionale della Cima di Baremo, con un paio di gallerie buie. Dopo un gradevole tratto in cui si segue filologicamente il filo della cresta, ecco un nuovo strappo che, fra malghe alpeggi sulla destra, pinnacoli calcarei sulla sinistra, conduce al Passo delle Pirole 1720 metri, donde per l'ampio fianco del Dosso Alto si obliqua fino ai 1669 metri del Passo Maniva, sovrastato da amplissimi pendii, sorvegliati a loro volta da due immense antenne paraboliche, che già vanno scomparendo nella nebbia. Ha l'aria di località turistica un tantino in declino, questo passo che in realtà passo non è, in quanto la via maestra vi prosegue verso l'alto; dal gran piazzale ricavato sulla cresta, tuttavia, intravvedo una sterrata che, sconosciuta alle carte geografiche, scende su Bagolino. Poco sopra il passo, ecco il triste incontro coi rottami del rifugio Bonardi, dopo il quale la strada si espone sempre maggiormente sul fianco meridionale del Monte Dasdana ove, affiancata poco sopra dal vecchio tracciato militare, supera abbondantemente i duemila metri. Un'improvvisa discesa mi sorprende nel fitto della nebbia; quando ricomincia dura la salita un equo squarcio mi rivela il laghetto di Dasdana sulla destra, e i due laghi di Ravénola sulla sinistra. Poco dopo scopro che la sede delle due antenne si chiama Dosso dei Galli, 2196 metri, e che lassú mira l'asfalto; pur tuttavia, è l'esile sterrata che continua in leggera pendenza verso il Giogo di Bala a fregiarsi del titolo di statale 345; fra mucche e pozzanghere, di tanto in tanto un cartello enumera i chilometri. Passate altre traversie altimetriche, passata una pozza detta Lago di Làvena, ecco ripidissima la planata finale sul passo di Crocedominii, in stretta simbiosi con una cresta che assomiglia tanto al sommo di un calanco appenninico. Al passo, le pareti del rifugio abbondano di immagini del Nepal e della piramide del CNR; da queste parti ci deve essere qualche guida alpina forte in spedizioni. Mentre a destra la strada salirebbe ancora un poco fino al Goletto del Cadino, sul versante camuno una dolce discesa mi scodella nell'ampia conca dove sorge il rifugio Bazena, dopodiché la strada diventa uno strettissimo budello fino al bivio per Astrio, ove inizia l'ultima planata su Breno. Sono a 300 metri e mi attendono oltre 50 km di avvicinamento all'attacco del Gavia. Ma, a parte l'afa e il traffico, la risalita della Val Camonica è rallegrata da gradevoli spunti: scorci ora sulla Concarena, ora sui fianchi dell'Adamello dove le frazioni di Saviore sono appollaiate in magnifica esposizione su prati incredibilmente ripidi. Dopo un rifornimento a Edolo, verso le sette sono a Ponte di Legno, dove invano cerco di contattare la truppa del Gavia. Un po' dubbioso e un po' indispettito, mi metto a salire mentre il tempo cerca di decidersi se piovere o non piovere. Ecco Sant'Apollonia protettrice dei denti; denti che vanno stretti sul susseguente strappo al sedici per cento. Intanto ecco la decisione definitiva del tempo: piove. Sopra i duemila ci si mette la nebbia. Poco dopo il buio. Poi è di scena la galleria, dove l'andatura è tale che è meglio dimenticarsi della dinamo e tirar fuori la lampada frontale. Presso l'uscita, mi ricordo del parcheggio che facemmo con Gabriele nel 96: era il due novembre, obiettivo, un fuori stagione scialpinistico al Tresero, e il vento aveva coalizzato grosse masse nevose contro il viandante che tentasse di uscire dal traforo. Anche oggi però all'uscita c'è la sorpresa: mentre spengo la pila mi sento chiamare da un paio di metri. A lato della strada è ferma una macchina, sono gli amici che mi sono venuti a cercare. Perché non arrivi? E voi, perché non rispondete al telefono? semplicemente perché al Gavia non riceve. Mentre i fari dei soccorritori scompaiono su per gli ultimi tornanti, continuo lento la mia salita sotto la pioggia e piú in alto supero il luogo dove mi cucinai una minestra Knorr aspettando che passasse il giro, nel 96; i prati tutt'attorno erano disseminati di biciclette. Oggi la salita è meno conviviale e meno panoramica, ma anche venir su col buio è un'esperienza nuova, in particolare perché, di tanto in tanto, si viene sorpresi da qualche impennata che letteralmente lascia fermi sui pedali. Dante direbbe forse che salita previsa vien men lenta. Passata la luce del Rifugio Bonetta, alla quale oggi si riduce il pregiato panorama del passo, sento una nuova voce nel buio, è Franceco, il presidente della SAT di Pergine, che mi invita a cena nel suo camper. Debbo declinare, nei cameroni del rifugio saremo già alle barzellette della buonanotte e io devo ancora assemblare uno zaino. Arrivato a destinazione apprendo che d'ufficio mi è stato prenotato un letto; per stanotte niente tenda.

03. Gavia - Santa Caterina (18 km, 1300 m)

Sveglia alle quattro, gli esperti hanno deciso che il brutto tempo va battuto proprio sul tempo. E invece il tempo ha meno fretta degli esperti: solo a metà mattina si decide, e nella fattispecie decide al bello. Ardui problemi quando mi lego in cordata, vengono contestati i miei nodi. Mi difendo spiegando che sono quelli che appresi al corso del CAI, sei anni fa. Ma adesso imperano le novità, nodi a palla e a coda di vacca, i miei sistemi sono obsoleti. Mi par d'essere Wozzeck con lo Herr Hauptmann che gli spiega es gibt eine Revolution in der Wissenschaft, ma alla fine troviamo l'accordo piú logico, io penso ai miei nodi e gli altri pensano ai loro. La salita della cresta finale è come al solito entusiasmante, al cospetto della cornice sommitale da cui cadde Julius Payer il 21 settembre del 1867 e, ritrovandosi miracolosamente incolume, intitolò la cima al santo in calendario. Soltanto nel panorama stento a riconoscere la cima dalla quale un giorno, con un 500 mm, fotografai nei dettagli la parete est del Monte Rosa, che spuntava dietro il Disgrazia e lo Scalino. Vi sono ormai nubi appoggiate a tutte le montagne; ulteriori cumuli stazionano a mezz'aria sopra la Val di Sole e il bacino dei Forni. Anche se la discesa si svolge in una fornace ardente, quando arriviamo al rifugio già piove. Poco male per quelli che se ne tornano a casa, un po' peggio per me. Appesantito da salsicce e formaggi dimenticati dai colleghi e che non ho avuto animo di abbandonare, comincio la picchiata su Santa Caterina, dove mi metto stupidamente a gareggiare con un panciuto temporale che risale la Valfurva. Scappo quindi verso la Valle dei Forni; trovo da mettere la tenda ma, manco a dirlo, non ci entro asciutto.

04. Santa Caterina - Passo Albula (110 km, 2550 m)

Quest'oggi sveglia ben dopo le quattro. Rapida planata su Bormio, gli occhi fissi sui meravigliosi prati dove si distendono le frazioni di Valfurva, sotto l'incombente barriera di Reit. A Sant'Antonio, sul muro che ospita le insegne dell'albergo Zebrú, una vetusta prescrizione recita: Automobili, motociclette e altri veicoli: proibita corsa oltre gli 8 km l'ora. Da Bormio verso Premadio si va per tranquilli prati; poi attacca la sterrata militare delle le Torri di Fraele, che dopo qualche tornante effettua un lungo traverso sopra l'abitato di Pedenosso; compare la Val Viola, e la slanciata sagoma del Corno di Dosdé che la domina a sinistra. Voltandosi indietro, ecco le abbaglianti nevi delle Tredici Cime, e ancora, a sud, il severo fianco nord ghiacciato della Cima dei Piazzi. Per godere con piú calma del panorama, ad un torrente organizzo una prima seduta di lavaggio panni. Seguono, in vista delle torri, gli ultimi tranquilli tornanti del tracciato, dominati dalla muraglia delle Cime di Plator. Quasi al sommo del percorso si stacca a sinistra la diramazione pianeggiante per Arnoga, alla quale dovrei tornare, dopo aver dato un'occhiata ai laghi di Cancano, a meno di non decidere poi per l'Alpisella. Quest'ultima ipotesi sulla carta è alquanto avventurosa; anche se ieri un ospite del Berni mi rassicurava sullo stato della salita dai laghi, la vera incognita rimane la mulattiera sul versante Livigno. Dalle Torri la strada si addentra in una stretta, costeggiando il Laghetto delle Scale, difeso dall'insegna "stagno privato." Poi appaiono i laghi e i monti che li incorniciano: pareti imponenti in alto, cumuli di detriti appena sotto. Ci sono tre soli colori in questa conca: quello della roccia, quello dei cirmoli, quello dei laghi e del cielo. Quando riparto dopo il rito dell'asciugatura, vengo agganciato da un esuberante ciclista di Conegliano, il quale è di stanza a Livigno, e ogni giorno colleziona una sterrata diversa. Mi parla con particolare trasporto della Val Federía, nella quale a sua detta si raggiungono in sella i tremila metri. In fondo al lago di San Giacomo ecco il Passo di Fraele, 1952 metri, con una chiesetta; la valle retrostante scenderebbe al lago del Gallo e al tunnel di Livigno, ma la strada si perde prima di arrivarvi. Questo spiega perché questo passo sia cosí poco noto, benché sia uno dei rari punti dove lo spartiacque alpino cede sotto i duemila metri, tra le Marittime e San Candido - la lista è presto fatta: Tenda, Maddalena, Monginevro, Lucomagno, Maloja, Fraele, Resia e Brennero. Decido di curiosare su per l'Alpisella, e comincio a macinare tornanti su ghiaia grossa ma comunque pedalabile. In seguito, la strada si addentra nell'alto ripiano del passo con un lungo traverso che lambisce le sorgenti dell'Adda. Le ondulazioni sommitali sono occupate da minuscoli laghetti, e sono chiuse sulla destra da un formidabile pendío detritico che scende con spettacolare regolarità dal Pizzo della Cassa del Ferro. E qui comincia il bello: la vecchia mulattiera è in abbandono, si scende per un sentiero i cui muretti sono in restauro, a cura del Parco Nazionale dello Stelvio. Ho decisamente sconfinato nel regno dei mountain-bikers, ed ecco infatti salirne da Livigno decine, chi trafelato in sella, chi piú realisticamente spingendo, cosa che a tratti faccio anch'io, perché mi sembrerebbe prematuro fracassare la bici, o il bagaglio, o il ciclista. Con qualche tornante nel bosco il sentiero conduce al pezzo forte, al passerella in legno che a quota 1923 sostituisce il vecchio ponte che è stato fatto saltare, c'è chi dice per via dei contrabbandieri e chi dice per via delle moto. Ci passa una sola persona alla volta, meglio se non troppo pingue; i miei bagagli sono fuori sagoma e vanno smontati e rimontati - non prima di aver commissionato ai passanti una foto del trasbordo. Superato qualche tratto franato, il tracciato si trasforma in una civilissima sterrata che conduce al Ponte delle Capre, m 1791, presso il lago, e di lí in pochi km a Livigno. Ultimo rifornimento italiano; qui anche per comperare un cartone di latte bisogna farsi tutta una trafila di ordinatissimi scaffali ricolmi di azzimati liquori. Una buona bottiglia di rosso farebbe anche gola, ma non sarebbe compatibile con la susseguente salita della Fórcola. La pendenza della quale, a dire il vero, comincia ad essere percettibile solo passata l'Alpe Vago, per diventare decisa decisa dopo il cosiddetto Baitel del Gras degli Agnelli, posto prima dei paravalanghe finali, e dal quale si potrebbe facilmente salire al Passo del Fieno per raggiungere il Monte Breva, 3102 metri (la breva sarebbe il vento che risale la val Poschiavina). A malincuore accantono la salita, pensando che rinunciandovi, riuscirò a raggiungere stasera l'Albula donde domattina potrei tentare l'assalto al Piz Kesch. I doganieri non mi degnano di attenzione; visti i mezzi immagineranno che avrò stipato la merce di contrabbando con ragionevole parsimonia. Spettacolare la subitanea apparizione del Piz Palü, splendidamente candido nel controluce del tardo pomeriggio, movimentato dall'irrequietezza delle nubi. Sotto una gradevole combinazione di sole e leggera pioggerella, scendo verso La Motta, contornando i fianchi dell'alto calanco detto dei Gessi. In corrispondenza della dogana svizzera, a 2054 metri, ci si immette in medias res nella salita del Bernina, che da qui fino al passo mantiene una pendenza costante, direi del 12%. Il panorama sulle pareti del Pizzo Cambrena è noto; ma non da meno è quello sulla valle Poschiavina, bipartito dalla sagoma del Piz Campasc, il quale separa il valico stradale da quello orografico che ospita invece la ferrovia. Graduale e gradevole la discesa verso l'Engadina, al cospetto della piramide del Piz Ot che, si parva licet, vigila su questa valle un po' come il Bietschhorn domina la valle di Saas. Si lasciano presto indietro le varie funivie; prima quella del Piz Lagalb che porta all'Alpinarium, lo zoo piú elevato d'Europa; indi quella della Diavolezza che porta al cospetto del Vadret Pers, e quindi nel cuore del massiccio. A destra il Piz Alv, che vuol dire bianco; vedendo la sua roccia chiara illuminata di sbieco attraverso l'unico squarcio nelle nuvole, si plaude al nome. Ma la grossa riserva del bianco appare alla curva del Montebello, dove la vista si apre sul ghiacciaio di Morteratsch e sul Biancograt-Crast'Alvra del Bernina. Seduto su un sasso al di là della ferrovia, penso alla primavera del 96, allorché con Gabriele salimmo in giornata dal passaggio a livello di Morteratsch fino ai quattromila metri: rivedo la levata nella tenda incrostata di ghiaccio; le diversioni indesiderate tra le gobbe della morena; l'anfiteatro ove confluiscono i fiumi di ghiaccio del Vadret Pers, del Labirynth, del Buuch. Ricordo come in quel plateau la notte improvvisamente cedette il passo al sole abbagliante. Altre volte ci è capitato di essere tutti soli su montagne grandiose: Gran Zebrú, Obergabelhorn, addirittura la Jungfrau... però mai come quel giorno, abbiamo avuto l'impressione di possedere un massiccio alpino tutto per noi. Ricordi ben diversi suscita la bastionata rocciosa del Fortezzarücken dove un perfido filo d'acqua ci adescò ad un rifornimento per poi scaricarci addosso una valanga di lastre di ghiaccio; quando giú alla ferrovia levai gli sci, scoprii di essere zoppicante. Dal Montebello è una volata fino a Ponteresina; unica precauzione, voltarsi ogni tanto per ammirare i tre spigoli del Piz Palü che la prospettiva rende via via piú maestosi e anche piú spaventevoli. A Pontresina invece è spaventevole e quasi opprimente la magnificenza degli alberghi. Richard Strauss cinquant'anni fa vi componeva due dei suoi Vier Letzte Lieder.

Und die Seele unbewacht
will in freien Flügel schweben
um im Zauberkreis der Nacht
tief und tausendfach zu leben.

È pensando a questi versi che mi addormento su un muretto. Quando il freddo penetra nella giacca a vento, e il sole scende dietro le montagne del Güglia (Julier), mi rimetto in moto, sorvegliato ancora dal Piz Ot. Mi pare che il suo slancio abbia qualcosa a che fare con l'assolo del violino nel terzo Lied. Lungo l'Inn, l'aria frizzante mi fa venire in mente il passo di Schnitzler dove la signorina Else chiede al vecchio e noioso signor Von Dorsday "come mai oggi non dice che l'aria è come lo champagne? - Ma signorina Else, questo lo dico a partire da duemila metri, e qui siamo ad appena milleseicentocinquanta metri. - Fa tanta differenza? - Ma si capisce. È mai stata in Engadina?"
Dai 1650 metri di La Punt si può contentare Dorsday salendo ai 2313 dell'Albula. Fino a quota 2250, una pendenza continua intorno al 12% cede solo nelle battute iniziali, quando si attraversano i binari della ferrovia a scartamento ridotto - quindi per poco. La salita per il resto, anche se breve, è d'impegno. A due km dal passo, finite le rampe, è anche tempo di cercare sistemazione. Il vento freddo e l'umidità che regna nei prati, fra immense chiazze di neve rimaste a memoria di passate valanghe, mi spingono alla prosaica soluzione di sistemarmi nella piazzola ove parcheggiano gli alpinisti diretti alla Chamanna d'Es-cha e al Piz Kesch. Grave caduta in fatto di wilderness, ma buon sistema per tenere il sedere asciutto.

05. Passo Albula - Sedrun (128 km, 2500 m)

Comincio la nuova giornata, che si preannuncia favorevole, come avevo concluso la precedente, ossia esaminando la slanciata cresta che mi sovrasta, e che non riesco a giudicare per via dell'ardita prospettiva. Non si capisce se tre chiazze bianche che la interrompono siano dei bonari accumuli o dei fieri ostacoli, quelle lame di neve che i francesi chiamano bourriques perché i pionieri ignari di ramponi vi passavano à califourchon. Interpello un escursionista, cui uno scatolone di cartone trasformato in zaino conferisce un'aura da montanaro tosto. Questi mi rassicura sulla natura elementare della salita al Piz ***; qui la comprensione scema perché, si sa, nel parlare i tedeschi accelerano quando meno dovrebbero. Il nome della cima l'ho appreso solo con opportuni studi alla biblioteca della SAT, si chiama Piz Blaisun. La salita è ripida, prima a quattro zampe sui prati, poi a quattro zampe sul Geröll che mi era stato preannunciato dal tosto; la cresta è invece una comoda passeggiata, dove ci si può godere una vera esposizione di ometti dalle geometrie piú ardite. La roccia infatti vi si frantuma in scaglie sottili e allungate, particolarmente adatte all'uopo. In vetta ci si trova proprio al cospetto della muraglia del Piz Kesch; se sulla sua cima vi fosse qualche vociante comitiva, non si avrebbe difficoltà a sentirla. Stranamente però stamattina la piú alta sommità dell'Engadina sembra deserta. L'altimetro segna 3210 metri, e il panorama spazia dal vicino Piz Uertsch ai verdi pascoli appena intravisti della Val Tuors, ai monti della Ducan, al Silvretta; a sud grandioso il Bernina. Nuvoloni che si alzano ovunque suggeriscono però di non dilungarsi in considerazioni topografiche. Per il ritorno, trovo un vallone dove lingue di neve che convergono a un laghetto ghiacciato si alternano a lingue di fango sul quale si scia non meno piacevolmente. Appena ho rifatto il bagaglio della bici, si mette a piovere; raggiunto il passo, decido di affrontare la discesa nonostante le condizioni, poiché temo, fermandomi, di congelarmi come avvenne l'anno scorso sull'Izoard. La strada scende prima verso il ripiano che ospita il lago di Palpuogna e il paese di Preda, indi verso Bergün, dove sopprimo causa pioggia la tradizionale passeggiata che permette di ammirare le antiche iscrizioni sulle case. Eccomi quindi, scesa la gola detta Igl Crap, a Filisur, altro paese di case dipinte, indi al fondovalle della Landwasser. Dopo Tiefencastel, la risalita di Alvaschein è addomesticata da un tunnel peraltro vietato alle bici, che conduce rapidamente a un alto ponte sull'Albula, con vista splendida sul ponte della ferrovia e su quello vecchio della strada; come e piú che a Mostizzolo. Dopo aver superato con l'aiuto di qualche tunnel la gola dello Schin, la strada plana su Sils, con dirimpetto le numerose frazioni che popolano lo Heinzerberg. Quando smette di piovere, riparto verso la stradina che infila tutti i paesini della Domleschg, reputandola piú interessante della statale del San Bernardino. La previsione si rivela corretta, passo per una sequenza di paesi tutti fioriti, solo i saliscendi sono piú ragguardevoli di quanto avessi preventivato, specie per lo strappo che conduce alla rocca presso Paspels, con successiva pericolosa planata su Rothenbrunnen. Qui si traversa il Reno Interiore, incredibilmente ricco d'acqua, complice la quantità di neve che ancora si sta sciogliendo in montagna. Davanti a me, sulla Ringelspitze, gruppo del Sardona, amplissimi lenzuoli di neve scendono fino a 1500 metri, in pieno versante sud. A Bonaduz, dove confluiscono i due Reni, il mio percorso prende una decisa sterzata verso ovest. La strada che va verso Ilanz evitando Flims comincia con un lungo rettilineo in un'abetaia; celebre la veduta che si ha, all'uscita, alti sul Reno Anteriore che scava i suoi meandri nell'immensa frana che gli è caduta addosso dal Piz Sardona. La strada, detta anche di Ruinaulta, prosegue, scolpita nel conglomerato, fino al ponte sulla Rabiusa, seguito da una dura risalita a tornanti con la quale si guadagna una forcella presso Versam. Dopo Carrera c'è un alto ponte. Appreso dalla carta che quell'acqua scende direttamente dalle cime, trovo un varco per raggiungerla e fare finalmente un bel bagno. Cosí rinnovato, completo la gradevole discesa su Ilanz. Rinnovo anche lo stomaco con due litri di roba fra latte e yoghurt, indi comincio a risalire verso Disentis. Nell'alta valle del Reno Anteriore, si intuisce l'incombente presenza del Tödi, dai cui ghiacciai defluiscono impetuosi torrenti (quello della Val Russein forma una cascata maestosa); tuttavia esso rimane sempre nascosto, scortato com'è da possenti avancorpi rocciosi. Tengono invece compagnia a sud i ghiacciai del Piz Medel, tranquillissimi nella luce della sera. A Disentis è d'uopo una visita all'abbazia: risalente al Medioevo, è stata risistemata in modo quanto mai barocco da un certo architetto Moosbrugger - che immagino non sarà quello di Musil; caratteristico il minuscolo cimitero all'ingresso della chiesa. Guardo alla valle del Lucomagno; con breve diversione potrei raggiungere il passo stasera, per salire domattina la piramide dello Scopí. Poi però decido di lasciare tutto ciò per altra occasione; eccomi allora a salire la Val Tavetsch, in direzione Oberalp. Le cime sono presidiate da nuvole nerissime; a Sedrun un estemporaneo montaggio della tenda mi salva dalla pioggia incipiente - un po' meno dall'acqua della pasta che riesco chissà come a rovesciare tutta all'interno.

06. Sedrun - Gletsch (115 km, 3600 m)

Sveglia di buon mattino, prima che magari mi caccino gli Svizzeri; un pallido sole mi accompagna sui tornanti dell'Oberalp, oltre le poche case di Tschamut. Di là dal passo il tempo promette nuovamente male; scendendo su Andermatt, considero se non sia il caso di tagliare il progettato girotondo del Damma, attraverso Susten Grimsel Furka. Mentre faccio colazione in paese il primo raggio di sole della mattinata è sufficiente per convincermi a non fare tagli al percorso. Scendo per la ripida gola della Schöllenen. che anticamente si chiamava Urnerloch, ossia buco dell'Uri; allo stesso modo, la località soprastante si chiamava Ursteren; prima di diventare An der Matt (sul prato). Gallerie e tornanti si susseguono sotto impressionanti placche sulle quali si muove un lungo serpentone di scalatori, forse una scuola di roccia per coloro che non temono ombra né umidità. C'è anche un ponte del Diavolo; al museo del Gottardo apprenderò che fu teatro di una storica battaglia delle truppe del generale russo Suvorov, ai tempi di Napoleone. Stretto com'è fra i tornanti della strada e la cremagliera, il ponte ha l'aria di un reperto un po' straniato. A Göschenen, allo sbocco dell'omonima valle laterale, appare splendida la muraglia orientale del Damma; proprio mentre si inabissa la ferrovia, preceduta in questo un poco a valle dall'autostrada del Gottardo. Fa un certo effetto, provenendo dai duemila metri dell'Oberalp, trovarsi cosí all'improvviso tra immensi stradoni e grovigli di binari. A Wassen si riparte da 935 metri: un ultimo sguardo alle piramidi dei Windgällen, e subito un paio di tornanti conducono entro una gola, all'inizio della quale accade di incrociare la ferrovia due volte. La soluzione del caso è che in realtà vi sarebbe in terzo incrocio, senonché anche la ferrovia sta descrivendo un suo tornante, e lo completa in galleria. Dopo un bosco di larici, si esce sopra il verdissimo fondovalle della Meiental. A sud, il prodigioso balzo di oltre duemila metri del Fleckistock; davanti, le splendide rocce calcaree del Grassen e del Fünffingerstock, disseminate di lingue di neve. Caratteristica di questa recente strada (costruita nel 1961, è una delle ultime grandi strade alpine), oltre allo scenario impareggiabile, è la costanza dell'inclinazione; la pendenza media del 7.2% viene mantenuta con puntiglio quasi matematico. Senza nessun tornante, si guadagna progressivamente quota sul fondovalle che, dopo un temporaneo restringimento a monte di Färnigen; si apre in un'altra, ancor piú splendida conca, donde un'evidente mulattiera punta dritta al valico. La carrozzabile invece lambisce la vallata laterale che scende, in uno spettacoloso anfiteatro di cime, dal Grosses Spannort; indi si impegna sotto gli immensi lastroni che ospitano la Sustli Hütte, dai quali scendono grossi imbuti di neve. Da ultimo, per raggiungere il passo la strada è costretta a descrivere due tornanti, che la portano a intersecare tre volte un torrente con altrettanti spettacolari ponti, ben mimetizzati fra le placche di granito. In cima vi è un breve tunnel, ma è questione di pochi minuti raggiungere la vecchia mulattiera e salire per essa al valico vero e proprio. dal quale si finisce di scoprire la corona di cime che racchiude lo Steingletscher. Il gran piazzale-kermesse sta di là dal traforo; mi unisco all'attitudine vorace che vi impera dando fondo all'ultima lucanica, superstite ancora dal Gavia... La discesa fornisce altri 28 km spettacolari, già al primo tornante è d'obbligo fermarsi per ammirare la lingua del ghiacciaio di Stein. Esso è assai meno esteso dei suoi due illustri colleghi, il ghiacciaio del Rodano e quello di Trift. Dal punto di vista paesaggistico, tuttavia, grazie alla bellezza e alla dirittura della lingua, e grazie al suo laghetto proglaciale perfettamente circolare, non teme rivali. Piú sotto la strada, perfettamente mimetizzata fra la roccia, passa in galleria sotto una cascata che quasi la minaccia piú sotto. In seguito si scende per un tratto scavato nella roccia verso la Wendenalp, sotto l'impressionante bastionata rocciosa Titlis - Reissende Nollen - Wendenstöcke - Mähren, montagne di prim'ordine anche se per noi italiani rimangono un po' fuori mano. Sotto Gadmen, comincia ad apparire l'estrema porzione nordorientale delle Alpi Bernesi, che fa capo allo Schwarzhorn, ovvero Corno Nero, nella fattispecie poco nero per la quantità di neve. Esso è separato dal Wetterhorn, tenuto oggi in ostaggio dalle nuvole, dalla Grosse Scheidegg, valico ciclabile al quale rinuncio, in quanto mi costringerebbe a una diversione esagerata, con alta probabilità di vedere la triade Eiger-Mönch-Jungfrau solo in cartolina. Ai 622 metri di Innertkirchen il bel capitolo Susten è concluso. Al cospetto del couloir nord dello Hangendgletscherhorn, primizia per gli amatori di pareti nord sconosciute, comincia il capitolo Grimsel. Non siamo ancora a 800 metri, e già l'Aare comincia a essere traversato da ponti di neve, residui di valanga. Sopra Guttannen, vi sono grandi cantieri, tra l'altro italiani, per la posa di un oleodotto. Il carattere selvaggio e difficile della Haslital è cosí descritto da Hegel nel suo Viaggio nelle Alpi Bernesi: "da Guttannen in poi il cammino si fa sempre piú selvaggio, desolato, uniforme. Hai sembre egualmente scabre, tristi rupi su entrambi i lati... Si assiste da presso alla furia possente delle onde contro le rocce che sporgono... in nessun luogo si ottiene un concetto cosí puro della necessità della natura come alla vista della furia perennemente reiterata e perennemente inane di un'onda che si getta contro tali rocce." Va anche precisato che oggi gli impianti del Grimsel, succhiandosi gran parte dell'acqua, rendono il concetto assai meno puro e l'onda meno inane. La prima centrale la si trova sul ripiano di Handeck, dove supero due ciclisti uno dei quali traina un carretto a rimorchio. Dopo il ripiano, una impennata della strada affronta un grosso bernoccolo di roccia, avendone alfine ragione per mezzo di una ripida galleria che gli Svizzeri saggiamente sconsigliano ai ciclisti. Del resto il vecchio tracciato, ardito e panoramico, è stato mantenuto apposta per loro. Quando arrivo, abbastanza provato, alla diga di Räterichsboden, sono curioso di vedere che fine abbiano fatto quelli del carretto, ma guardando giú per la valle non ne vedo traccia. Dopo il tratto lungolago, ecco la rampa finale, dalla quale si osserva lo sgorbio del nuovo ospizio del Grimsel gradualmente inabissarsi nelle torbide acque dell'omonimo lago; laddove il glorioso vecchio ospizio giace quaranta metri sott'acqua. Cosa volesse dire transitare quassú nel Settecento, lo si capisce leggendo racconti come quello del pastore protestante Johann Conrad Fäsi, che nella sua Genaue und vollständige Staats- und Erdbeschreibung der ganzen Helvetischen Eidgenossenschaft, derselben gemeinen Herrschaften und zugewandten Orten riporta che "per l'ospizio si riscuotono tutti gli anni imposte nell'intera confederazione; il capo-ospizio è tenuto da parte sua ad ospitare gratis tutti i poveri di passaggio e a tenere in ordine la strada... Al calar della notte deve ripetutamente chiamare ad alta voce, ad una certa distanza dall'ospizio, e se qualcuno gli risponde, andargli incontro." Un altro glorioso edificio che, credo, a quest'ora si sia inabissato nelle acque del Grimsel, è il ricovero di sassi che nel 1840 il naturalista Agassiz fece costruire, per le sue ricerche sul moto dei ghiacciai, sulla morena mediana del Ghiacciaio dell'Unteraar, e che fu scherzosamente battezzato Hôtel des Neuchâtelois. Sugli ultimi tornanti si mette a piovere fitto cosicché al passo, presso il livido Totensee, tiro a diritto, sperando di perdere quota prima che la strada si allaghi consumandomi tutti i freni. Sei larghi tornanti mi scodellano su Gletsch, sotto una tettoia del Grand Hotel du Rhône. Dalla Furka arriva una famigliola, padre e due figli, li vedo entrare al Grand Hotel e poi puntare a uno dei capannoni, che li abbiano per qualche motivo mandati a dormire col bue e l'asinello? Invece nel capannone ci lasciano solo le bici, ed eccoli rientrare pimpanti in albergo. Io invece vorrei salire per scaldarmi e vorrei rimanere per non bagnarmi. Stavolta trovo piú saggio differire tutto all'indomani, sospettando che piú in alto non si trovi piú acqua. Mi inoltro quindi per una breve sterrata nel Gletscherboden, ovvero l'ampia piana liberata dal ghiacciaio il quale, ancora nel 1870, giungeva a poche centinaia di metri dall'albergo. Il luogo, dicono, sia sacro per i fitosociologi, ovvero quelli che studiano i meccanismi di ripopolamento vegetale; le mie indagini fitosociologiche si limitano a individuare una piazzola, presso un neonato affluente del Rodano, tutta cosparsa di Achillea moscata. Quella che, da noi, per trovarne dieci fiorellini da mettere nella grappa, bisogna andarla a cercare chissà dove (luoghi segreti, ovviamente). Piacevole la cena nel profumo dei fiori; quando si accendono cinquecento metri piú in alto le luci dell'Hotel Rhôneblick, sono già pronto per il sacco a pelo.

07. Gletsch - Paltano (88 km, 3600 m)

Partenza al buio, mentre la valle dorme, eccezion fatta per gli operai che già alle sei del mattino lavorano all'allargamento della strada. Al valico, come già altre volte, guardo curioso la cima che sta a sud, una specie di bernoccolo che sorge da un piccolo ghiacciaio. Mi chiedo se esista un modo per aggirare quest'ultimo; in effetti ciò sembrerebbe fattibile, guadagnando la cresta per un ripido pendio di sfasciumi, se non fosse che la cresta stessa appare poi perfidamente sbarrata da un gendarme che sorveglia un aereo colletto, e piú in alto da lame di roccia rossa. Vedo chiaramente che il gendarme o lo si aggira da dietro oppure non si passa; cionondimeno, voglio tentare la salita. Con un lungo traverso mi porto sotto il ghiacciaio; per lingue di neve rossa guadagno gli sfasciumi; salendo piú spedito di quanto questi scendano, raggiungo vecchie postazioni di cresta, una dotata ancora di camino. Di là, fra la nebbia, intravvedo le lingue di neve che scendono verso la Gerental, qualche bel laghetto qua e là; ogni tanto occhieggia anche la verde piana dell'Alto Vallese. Prima sorpresa: l'aggiramento del gendarme esiste ed è elementare. Punto allora con curiosità alle lame rosse, per aggiungere le quali devo superare un imprevisto e complicato sistema di cenge e canalini, che per fortuna non eccedono mai i dorati confini del secondo grado. Nuova sorpresa, le lame si superano agevolmente in spaccata proprio nel loro interno. Da sotto l'appicco sommitale sento voci; guardando in su mi si rivela nella nebbia un numerosa comitiva stretta intorno alla croce. Io mi interesso al libro di vetta, non foss'altro che per apprenderne il nome, Gross Mutterhorn, e la quota, 3099 metri. Non male, visto che il decano del gruppo, il Pizzo Rotondo, arriva a 3192 metri. I colleghi, una compagnia di Naturfreunde svizzeri, hanno scritto essere saliti dalla Furka come me in due ore; mi chiedo come abbiamo fatto a non vederci nemmeno. Armati di piccozze che sembrano degli Alpenstock e di una fune sufficiente a reggere l'impianto del Sass Pordoi, sono visibilmente contraddetti dall'apparizione di un figuro dotato di braghette corde, scarponcini semiseri, zainetto puramente simbolico. D'altronde il bello dell'alpinismo è anche che ognuno arriva in cima con i suoi metodi; lí poi, se tutto va bene, ci si trova tutti quanti. Quando ridiscendo la cresta, i canalini che vi escono dal ghiacciaio sono popolati da altre comitive di zelanti picconatori. Mentre al passo riavvio il mezzo, vedo arrivare i Naturfreunde, e finalmente capisco che sono passati sul versante Uri. La discesa propone dovizia di buche; si superano i gloriosi alberghi Tiefenbach e Galenstock e poi ci si tuffa con svelti tornanti su Realp: un tratto che mi ricorda molto il Col de Vars sopra Mélézen. La mia attenzione è captata dalla vallata che scende dal Pizzo Lucendro, la quale sembra avere notevoli pregi scialpinistici. A Realp mi rifocillo, indi proseguo contro un vento fortissimo per il caratteristico tratto diritto e pianeggiante che punta su Andermatt. Benché siano previsti onori e diplomi per chi completa il girotondo del Damma, io trovo piú estetico lasciare l'anello incompiuto, e a Hospental inizio la salita del Gottardo, senza diploma e cosa piú importante senza vento. Uniche note salienti, nella bassa valle, i bei casolari di Mätteli, a quota 1800, davanti a una grossa canna di cemento, probabilmente una presa d'aria del traforo. Dopo una stretta si entra nell'alta valle. Mentre dalla strada nasce l'autostrada che prende quota regolarmente, i ciclisti vengono mandati a spasso per l'Alpe Rodont sul vecchio tracciato di pavè rosso, che si riserva di guadagnare il passo solo da ultimo, con una severa impennata. Poco oltre lo spartiacque, ecco il lago, l'ospizio il museo. Un drappello di militari viene istruito da un ufficiale in lingua francese; sullo storico confine tra il mondo germanico e quello italiano, tra i due litiganti il terzo gode. Tutt'intorno esercitazioni di spari, chioschi di salsicce, suonatori di fisarmonica, forzati dell'abbronzatura, cultori del caffè e del gelato. Comincio l'opera di perdere mille metri di dislivello sul pavè della strada della Tremola, in stato peraltro eccellente. In corrispondenza di una successione di tornanti cosí stretta che tutto il fianco della montagna sembra pavimentato, supero il cocchio della posta, o meglio la rievocazione, con tanto di carro decorato e sonagli, di quella che era la posta Andermatt-Airolo. Piú sotto il tracciato ha un gran lavoro ad evitare l'autostrada, che le si fa incontro piú volte, dopo aver descritto la spettacolare curva volante che domina tutta la bassa Val Bedretto. Ed è questa la valle che mi metto a risalire dopo una breve merenda ad Airolo. Passati i paesi di Fontana ed Ossasco, il sole cocente delle vie di Airolo si è ormai tramutato in presagio di temporale; alla testata della valle sono accampati spaventosi nuvoloni; con meravigliosa sincronia seguono l'impennarsi della strada e l'inizio di un diluvio. Quando raggiungo una baracca di legno con un tettuccio, è ormai tardi. Mentre mi asciugo e mi cambio, estraggo le fotocopie della guida CAS e ripasso le notizie sui sentieri per il Passo San Giacomo. Questo valico sta alla testata della Valle del Toce, l'unica che io conosca, oltre a quella dell'Avisio, a cambiare tre nomi. Se infatti in alto si chiama Val Formazza, nel tratto mediano si chiama Valle Antigorio, prima di diventare Val d'Ossola. Detto per inciso, lo stesso vecchio nome Walser del Passo, ovvero Faldösch, deriva da un celtico oskilo, che sta per per frassino, Esche: ed Eschental è la Val d'Ossola. Il nome attuale deriva da una cappella, prossima al passo, che credevo andasse raggiunta bici in spalla dall'ospizio di All'Acqua, 1614 metri. A sorpresa, la fotocopia che evidentemente a casa non avevo letto con attenzione rivela l'esistenza di un altro sentiero che si diparte dalla località Paltano, a 1877 metri, un evidente guadagno. Divento improvvisamente curioso di raggiungere Paltano; mentre il temporale è agli sgoccioli, mi impegno sull'ultimo strappo prima dell'ospizio, ripido quanto serve per godermi con calma un indimenticabile controluce: proprio come scriveva Hölderlin, schroff durch Tannen herab glänzet und schwindet ein Strahl. Trecento metri piú in alto, di là dal fiume, ecco Paltano, una baita isolata presso uno stagno; decido di piantarvi la tenda per salire stasera senza carico al Passo di Novena, e domattina tentare il sentiero del San Giacomo. Le poche decine di metri che mi separano dall'altro lato della valle sono quanto mai penose: le ruote si vogliono inabissare nel terreno fangoso e devo ripiegare fra i rododendri, tra i rospi che saltellano. Poi mi avvio verso il Nufenen, scoprendo che la salita è dura anche senza bagaglio, e anche che si vuol rimettere a piovere. Un poco indispettito da queste circostanze, non mi godo adeguatamente la magia del paesaggio serale, impreziosito dalla luce obliqua che viene dal Vallese, dove già il cielo si sta rasserenando, mentre sopra il rifugio Corno Gries vige ancora del colore della pece. Fra livide chiazze di neve, la strada raggiunge il passo. Nella fase finale è affiancata da due grosse linee elettriche, che però poi puntano verso il valico geografico, 40 metri piú basso. Quello stradale, 2478 metri, è caratterizzato da un laghetto di profondità irrisoria, ma comunque pittoresco, come pittoresche sono le pozzanghere nelle quali si riflettono le nubi infuocate che si stanno sfilacciando sopra le Alpi Bernesi. Nonostante siano le nove di sera e nonostante un freddo inusuale, mi fermo per vedere se uscisse una buona volta dalle nuvole il Finsteraarhorn. Fu su quella vetta, tra foto con il cioccolato Novi ed osservazioni scientifiche (ci si trova a 4271 metri, e l'Aletschhorn, 4195 metri, nasconde i Piloni del Freney del Bianco, 4500 metri), mi venne l'idea di questo giro. Se il panorama verso ovest, infatti, vede allineati i noti profili di tutti i grandi colossi alpini, quello verso est propone un dedalo inestricabile di basse montagne e di vallate; la visione di quel mare increspato mi mise la curiosità di un giro per la Svizzera centrale. I personaggi in scena in tarda ora al Passo di Novena sono i seguenti. Io che tento di lavare i cerchioni dal fango di Paltano, del quale sia con l'acqua del lago sia con qualche pugno di neve dura fatico ad avere ragione. Quelli del ristorante stanno chiudendo le imposte dopo aver sbarrato la porta. Davanti alla quale un padre con una ragazzina, sua figlia, battono i denti e saltellano per scaldarsi; mi spiegano che tornando da Guttannen verso Bergamo hanno rotto la cinghia due tornanti sotto il passo; hanno chiamato in soccorso che son tre ore un cugino di Bellinzona e lo stanno, appunto, ancora aspettando. Io assicuro che in caso di bisogno sono disposto a scendere ad Airolo, per chiamare soccorsi, ma alla fine optano per sperare ad oltranza nel cugino, e si avviano mestamente verso l'automobile e forse verso una brutta notte all'addiaccio. Scendendo lentamente, ho il tempo di constatare come la testata della Val Bedretto non sia affatto deserta, in mezzo ai campi si sono accese varie luci di baite e di roulottes di pastori.

08. Paltano - Viggiona (130 km, 700 m)

Verso le dieci, non appena smette di piovere, smonto la tenda, ordino i bagagli e mi avvio su per un percorso fangoso tracciato da alcune ruspe che stazionano poco sopra; non stanno comunque, come m'ero illuso, lavorando alla strada per il San Giacomo. Alternerò cinquanta metri con il bagaglio (due zaini, uno davanti e uno dietro, e due borse per ciascuna mano) e cinquanta con la bici. Basta sentire la descrizione per capire che dopo il primo turno sento la schiena distrutta e batto in ritirata. A vedermi scendere ridicolarmente bardato è una colonna di mezzi militari diretta al passo; mi chiedo per un momento se gli svizzeri avranno l'usanza di sparare sui contrabbandieri. Volto come da copione il guardo al varcato Ticino, per dare un saluto a Paltano e alle mie folli idee, comincio la discesa della Val Leventina, il modo piú ovvio per entrare in Italia. Passato All'Acqua, passato il baracchino salvifico, devio per i graziosissimi paesini di Ronco, Bedretto e Villa. Breve ristoro ad Airolo, stessa Coop e stessa panchina di ieri pomeriggio. La discesa della valle propone aria fresca fino a Piotta, dove si vede salire la funicolare del Ritom; scesa la gola del Piottino comincia l'afa di fondovalle. Il sole picchia, solo le alte cime che circondano la valle sono tenute in ostaggio dalle nuvole. A Osogna vedo una serie di montagne russe presso la strada; guardo l'insegna, non si tratta di un gioco, bensí della scuola anti-sbandamento di Osogna. A Castione devio verso il San Bernardino, ma solo per raggiungere il paese di Lumino in cerca del mio amico Michea Simona, col quale condividevo lo studio in Normale. La ricerca è resa piú interessante dal fatto che non so l'indirizzo, e che in strada, per via dell'afa, non c'è anima viva. Saranno tutti in casa a preparare le pazzie della sera, per la festa del patrono San Mamette. È in attività il macellaio; lo interpello nella speranza che a casa di Michea non siano vegetariani, e apprendo che il nostro abita a Castione. Poco male, perché la stradina pedemontana che unisce i due paesi, immersa tra vigne e frutteti, è una vera delizia. Trovando la casa di Michea deserta, non mi resta che traversare la piana di Magadino e puntare verso Locarno. Improvvisamente sento un soffio di aria fresca, alzo gli occhi dalla strada e constato di essere davanti al lago. Tutt'intorno ancora vigneti, frutteti; le ville salgono altissime sul fianco della montagna; pensare che fino a Castione si vedevano solo prati incolti. Aggiro la bella vita del centro di Locarno seguendo una serie di stradoni che sarebbero piú appropriati per una metropoli americana; dopo il fiume Màggia, dove mi aspettavo di trovare Ascona, trovo invece un tunnel che me la fa saltare a pié pari. Non sto a tornare indietro, attratto ormai dal richiamo del Bel Paese; passata la dogana di Madonna di Ponte si comincia puntualmente a vedere qualche cartaccia in piú, ma in compenso ci sono splendide ville e giardini, appesi alle rocce sul lago, e accessibili solo per strette scalinate, roba che di là neppure si sognano. Appare Cannobio, ospitato da un provvisorio slargo fra i monti, in corrispondenza dello sbocco dell'omonima valle. Compro del lubrificante perché il cigolio degli ingranaggi comincia a toccare i livelli di sopportazione. Chiedo ai ciclomani notizie sulla salita per Tràrego e Viggiona, ma vedendo com'è carica la bici scuotono il capo. Parliamo del percorso che ho fatto, ma essi rimangono abbastanza tiepidi, finché non sentono del Gavia: questo li fa diventare improvvisamente euforici e, come effetto collaterale, ho la benedizione di salire a Tràrego. Questa magnifica strada panoramica inizia poco piú avanti, a Cànnero Riviera, di fronte a tre isolotti detti Borromei, come le loro piú note sorelle giú dalle parti di Stresa. Carta alla mano, i primi sei km di salita sono al dieci per cento di media. Tuttavia, fra ville, giardini, palme, con il panorama su Luino dalla parte opposta del lago, la quiete di una sera dolcissima, eccetera, non ho tempo di percepire alcuna fatica. Di tanto in tanto riappaiono fugacemente gli isolotti, di tornante in tornante piú minuscoli; segue il primo paese, Viggiona. Quando con Gabriele torniamo dalle scialpinistiche in Svizzera, reduci da panini, pasta di fornello e minestre Knorr, è di prammatica salutare il ritorno in patria con una mangiata di spaghetti che, cotti in un bel pentolone e a bassa quota, sono un'altra cosa. Stasera farò lo stesso; i turisti del luogo mi consigliano il Circolo dei Martiri Viggionesi, un posto alla buona, si capisce, ma l'abbondanza della cuoca e la voracità con la quale i turisti tedeschi, che monopolizzano le splendide ville della zona, stanno reclinati sul piatto fanno ben sperare. Dopo aver prosciugato primo secondo contorno dolce vino amaro, dopo aver telefonato a Pier Marco che sarò a Viú tra due giorni, mi metto a chiacchierare con il padrone e apprendo che poco sotto una cappella della Madonna dotata di un porticato farebbe al caso mio. Meglio mettersi al riparo, mi spiega, perché stanotte le previsioni annunciano violenti temporali. Monto la tenda piú per abitudine che non in ossequio alle previsioni. A mezzanotte si solleva un primo temporale, un fulmine casca a poche decine di metri e lo spostamento d'aria mi solleva la tenda fin sotto il sedere. Alle due ecco un altro temporale, cui ne segue a ruota un terzo. Alle quattro sembra caschi il mondo, straventa in modo tale che il porticato e perfino la tenda sono allagati. Aspetto che si calmi un poco la situazione per smontarla, ma d'improvviso tuoni e lampi cedono il posto a vento fortissimo che arriva come una compatta muraglia; devo stare mezz'ora appeso ai teli della tenda, per impedire che si strappino, prima che un breve cedimento del vento mi permetta, con mossa repentina, di smontare il tutto. Apprenderò in seguito che non era un temporale locale, ma un cataclisma che aveva spazzato tutto l'arco alpino, provocando anche diversi morti.

09. Viggiona - Trivero (130 km, 3150 m)

Alle otto passa il compare a vedere se ho dormito bene; io mi rifiuto di uscire, tutto il bosco è ancora proteso verso di me, non sarà la foresta di Birnam, meglio però aspettare. Quando mi metto in moto, dietro Luino il cielo ha ancora un brutto colore metallico, ma dalla pianura sta entrando bonariamente il sereno. Il panorama che la strada, salendo fra sorbi e betulle, offre sul blu intenso del Lago Maggiore, è di quelli che non si dimenticano. Dopo una fitta abetaia il percorso raggiunge un primo culmine a 1220 metri; il vicino Monte Cazza è il belvedere ideale sulla porzione settentrionale del lago. La strada perde in seguito cento metri di quota, poi risale fra alpeggi abitati fino oltre i 1300; quello che sulla carta Touring è segnato come Il Colle m. 1238 è in realtà una depressione, in quanto la strada piú avanti riguadagna i 1300 metri. Al Colle un signore sta ripulendo il suo giardino sconvolto dagli eventi della nottata; chiacchierando si viene a parlare del vicino Passo Folungo, nome che mi si associa a quello del Monte Zeda (2151 metri), la cima di quel gruppo di Prealpi che fa bella mostra di sé mentre si costeggia in autostrada il Lago Maggiore in direzione Sempione. Piú d'una volta in primavera vedendo quel lenzuolo bianco spuntare dalle colline antistanti mi ero ripromesso di arrivarci; oggi è l'occasione buona. Inverto la marcia, e raggiungo la sterrata che comincia con l'attraversare in piano un primo costone, tra felci e bassi arbusti che non interferiscono con il grandioso panorama. Il fondo stradale abbonda di luccicanti scaglie di mica, molto amanti dell'olio di Cannobio, cosicché in poco tempo mi ritrovo una catena perfettamente scintillante e gracidante. Superata una prima cresta del monte Spalàvera, la strada entra nel bosco e punta verso nord. Quando viene a sfiorare un'altra cresta, piega decisamente verso ovest; solo dopo il lungo traverso sotto cresta scollina sul lato della Val Cannobina. Sopra una cresta secondaria che scende verso quest'ultima valle, sorge l'agritur Alpe Archia. In seguito la strada rinviene verso lo spartiacque principale e con ultima debole salita guadagna Passo Folungo, 1359 metri. Nel suo complesso il percorso sembra disegnato apposta per dividere equamente il panorama fra i quattro punti cardinali. Dal passo una mulattiera militare comincia a rimontare il fianco del monte Vadà; due ciclisti avventurosi vi sono impegnati. Io lascio la bici al passo, e prendo il sentiero che segue il filo di cresta, per tornare alla mulattiera nel punto in cui una serie di tornanti termina lasciando spazio a un lungo traverso a mezza costa. Il versante è ideale per il pascolo; un pastore sta scacciando verso il basso le sue pecore testarde servendosi del frastuono di una moto che fa impennare in mezzo ai prati. Superata la cresta sud del Vadà, il traverso continua, dominando ripidi pendii sono punteggiati di alpeggi, non tutti diroccati, con magnifici tetti luccicanti di ardesia. Si arriva da ultimo alla selletta 1850 metri sotto l'impennata finale dello Zeda. Prima di infilarmi nel cappuccio di nebbia della cima, arrivo a scoprire anche sul versante cannobino una miriade di alpeggi, che salgono dal fondovalle fino a poche centinaia di metri da me. La curiosità di scoprire se il cappuccio di nebbia avvolge anche la cima mi spinge a salire celermente; in poco piú di un quarto d'ora supero i 300 metri di dislivello che mi separavano dalla cima. Nel complesso ho impiegato un'ora e dieci dal Folungo. La nebbia comunque tiene saldamente la vetta, mi perdo il Monte Rosa e chissà quant'altro, ma sono già contento per il fatto di non essermi lasciato sfuggire questa splendida deviazione. All'Alpe Archia ho già perso il conto delle creste e dei versanti, e sto per imboccare una pista forestale che scenderebbe in val Cannobina. Per fortuna torno e chiedo, e grazie a questo riguadagno senza intoppi il Colle. Per scendere verso Verbania, come già detto, si comincia con una risalita; poco dopo il punto piú alto, appare un grosso ospedale, il Centro Auxologico di Piancavallo. Con suggestivi passaggi sul filo della cresta, la strada scende ripidamente ad una forcella, 800 metri, nella quale si nascondono le poche case di Manegra. Segue una risalita ai 935 metri del Piano di Sole, posto ideale per uno spuntino e per l'indispensabile asciugamento della tenda. Ampi tornanti scendono verso Verbania; purtroppo l'edilizia non è piú quella di Tràrego e Viggiona; cemento ed alluminio neutralizzano efficacemente la suggestione del panorama. Dopo un breve tratto lungo il lago, mi trovo sotto le cave di marmo del Monte Òrfano, indi a Gravellona. Salendo verso Omegna incontro Casale Corte Cerro, era dalla Rocca di Capri Leone, costa settentrionale sicula, che non incontravo un posto con tre nomi; qui c'è anche il beneficio dell'allitterazione. Decisamente balneare l'atmosfera lungo il lago d'Orta: le cittadine e la strada sono deserte, tutti quanti sono a mollo oppure in barca. Supero San Giulio, l'isola del barone Lamberto, quello che c'era due volte, ed aveva ventiquattro mali che solo il suo maggiordomo riusciva a tenere a mente. Del resto il suo ideatore Gianni Rodari era di Omegna. Fortuite le omonimie letterarie invece per il paese di Gozzano, sulla collina morenica che chiude il lago a sud. Da lí comincia la salita alla Cremosina, 599 metri, un passaggio verso la Valsesia che con fantasia si può chiamare valico. Dapprima la strada vaga per la morena; improvvisamente si impenna per raggiungere il ripiano di Pogno; indi di addentra tortuosa per una stretta valle che sembra sempre finire di lí a cento metri, poiché le sue bizzose volute sono ben nascoste dalla vegetazione. Quando la valle finisce per davvero davanti ad un'osteria, ci pensa un breve tunnel a risolvere la situazione. Inizia poi la discesa su Borgosesia, il tratto certo meno bello del percorso: tristi paesoni, cresciuti alla rinfusa, in una zona che già di per sè non ha grandi attrattive paesaggistiche. Dopo Borgosesia, nella bassa valle del Sèssera, ho avuto un po' di problemi di orientamento nel raggiungere Trivero, dove inizia la Panoramica Zegna. Le indicazioni sono abbastanza lacunose; consiglio di tenere la sinistra idrografica, di fidarsi dell'intuizione e soprattutto di non chiedere informazioni alla gente del luogo, che mi ha mandato verso paesi dai nomi sí pittoreschi, tipo Guardabosone oppure Ailoche, ma invero poco attinenti al mio itinerario. Quando finalmente la strada abbandona il triste fondovalle per puntare verso Trivero mi sembra una liberazione. È quasi buio, e anche piú in alto devo constatare che non c'è traccia né d'un prato né d'una fontana. Anche se un cartello turistico segnala l'esistenza di una decina di meritevoli monumenti nel solo paese di Portula, io non incontro altro che immensi piazzali asfaltati prospicenti ad altrettanto immensi lanifici. Verso la fine di Trivero non so quale intuizione mi sospinge verso un nucleo di case vecchie, dove mi appare una fontana. Quando mi avvento verso l'acqua con borraccia e bottiglie, mi si fanno incontro due donne per segnalarmi che, anche se il cartello che hanno attaccato non si legge per il buio, ciò non toglie che l'acqua sia tutta infangata. L'acquedotto è stato danneggiato dal temporale della notte, e in paese s'è usata acqua Ferrarelle anche per cuocere la pasta. Gentilmente mi offrono acqua Ferrarelle e un garage dove stendere il mio sacco a pelo; io spiego però che sarei felicissimo se mi indicassero un prato. Dopo un lungo consulto pervengono alla conclusione che esiste un prato in località Caulera, 400 metri piú in alto. Ci fermiamo ancora un poco a parlare della notte passata, e a guardare le luci della Bassa che tremolano nell'afa presaga di nuove sventure, indi mi congedo. Il proposito di raggiungere il rarissimo esemplare di prato è subito abbandonato dopo che ho due-tre saggi sulla guida notturna della gente del luogo. Trovo un posto orrendo nel bosco pur di togliermi dalla strada.

10. Trivero - Germagnano (155 km, 2000 m)

Causa la posizione precaria della tenda, al mattino mi ritrovo nuovamente allagato. La partenza è una liberazione, ma attacca di nuovo una pioggia che sembra voler durare tutto il giorno; il cielo sopra la pianura non sembra lasciare dubbi. Mentre seduto sotto un poggiolo studio come concludere in maniera decorosa il giro, vedo passare molte macchine; lo stesso garage contro il quale sono appoggiato mi si apre nel sedere. Da tutto ciò deduco che ci sia una messa al vicino convento; questa sarà la mia occupazione per la prossima ora. Il cielo, mostrando somma benevolenza verso il prete che se ne va imprecante perché gli hanno parcheggiato una macchina dietro, smette in breve di piovere. Finalmente attacco la Panoramica Zegna, fra due ali di ortensie blu; all'inizio, un cartello spiega come fosse il signor Ermenegildo Zegna, industriale della lana nonché filantropo, a volere questa strada somigliante a un giardino; poco piú avanti fra le ortensie c'è anche la sua tomba. Piú in alto trovo Caulera, costituita da tre orrendi condomini che ci si chiede cosa facciano a 1200 metri. Poco dopo segue una bellissima fontana con annesso pratino attrezzato come area pic-nic. Con un poco di ritardo, potrò lavarmi e cucinare quella che avrebbe dovuto essere la cena di ieri. Mentre bolle l'acqua, sono agganciato da uno sportivo, salito di corsa sotto la pioggia da Borgosesia a Bielmonte, 40 km, ora sta già scendendo. Capisco subito di trovarmi di fronte ad una persona atipica per il luogo, e infatti è originario di Aosta; parlando scopriamo di avere in comune, oltre all'avversione per i Biellesi, una certa propensione per le soluzioni complicate (lui va ad Aosta in bici passando per il Col d'Olen) e un disassamento della rotula destra, che lui a differenza del mio caso si è fatto operare, con risultati eccellenti a quanto pare. Poi ognuno riparte per la sua strada, la mia nella fattispecie porta nel bel mezzo della nebbia. Raggiunto un primo culmine a 1400 metri, si scende di cento, indi si risale al valico di Bielmonte, 1517 metri, prima di scendere alla Bocchetta di Sèssera, 1382, dove si dirama una sterrata che scende nell'alta Val Sessera; alcune carte riportano un progetto di collegamento con l'alta Valsesia. Durante tutto il percorso ho la sensazione che ci dovrebbe essere un bel panorama. Questi sono anche i luoghi dove morirono di stenti Fra' Dolcino ed i suoi seguaci; onde nel canto XXVIII dell'Inferno Maometto, che pure era alle prese con altri problemi, gli manda a dire per scherno di provvedersi meglio di viveri, un'altra volta: Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi, / tu che forse vedra' il sole in breve, / s'ello non vuol qui tosto seguitarmi, / sí di vivanda, che stretta di neve / non rechi la vittoria al Noarese, / ch'altrimenti acquistar non saría leve. Una tranquilla discesa porta sotto l'abitato di Rosazza, dove a 780 metri si traversa il torrente Cervo, impetuoso ed azzurrissimo nella diapositiva che raffigura l'inedito asciugamento della tenda: legata alla spallina del ponte, gonfiata dal forte vento, sembra una vela sopra l'acqua. Sulla salita per la Colma, trovo l'immenso santuario di San Giovanni Battista, di poco oltre i mille metri. Piú in alto la strada, sempre affiancata da edicole sacre, sfiora le cave di sienite, dominate da immense gru. L'ambiente ricorda molto le Alpi Apuane. L'asfalto cessa verso i 1250 metri e mi trovo, avvolto nella nebbia, a lottare con uno sterrato da subito infame; anche i fuoristrada che incontro faticano a scendere. Ad un certo punto emerge dalle nebbie una fantasiosa architettura neogotica; appuro che non è un miraggio, anzi, poco dietro si apre la galleria Benedetto Rosazza: anche la Colma infatti, come il Susten e il Galibier vecchia versione, ha un tunnel alla sommità. Siccome ho letto che un industriale di Rosazza eresse strane architetture nel suo paese, ho formulato provvisoriamente la seguente teoria: c'era una volta a Rosazza l'industriale Benedetto Rosazza, proprietario di cave; visto che le cave arrivavano quasi in cima alla montagna, fece anche scavare un tunnel per andare ad Oropa; gli diede il suo nome, e all'ingresso eresse questo strano edificio che sembra allo stesso tempo un palazzo, una chiesa, un castello. Entro al bar che sta al piano terra. La fama che uno stava salendo in bici da Rosazza mi ha preceduto; come dice Virgilio, magnas it fama per vias; se la concorrenza è impegnata su strade siffatte, le diventa facile accumulare vantaggio. Il fatto interessante è che alla parete pende un poster del Rifugio Crucolo. Una breve inchiesta stabilisce che: il proprietario è sardo; due avventori in uniforme sono della Forestale di Biella, salvo essere l'uno di Piné e l'altro di Bieno. Il ruolo del Crucolo è il seguente: i forestali biellesi hanno convinto il figlio del proprietario a venire in Valsugana per apprendere teoria e prassi del parampampolo. Io rendo conto delle peregrinazioni passate e delle poche future; dopo brevi scene alla maniera di Dante e Sordello, subito gli interlocutori si preoccupano del mio futuro. Sono infatti convinti che uno che pensi di arrivare in serata a Viú non possa essere tanto a posto; essendo il Canavese fuori dalla loro giurisdizione, ne parlano come di una terra invero remota. Visto che io non mi schiodo di testa questo Viú, si mettono a discutere sull'itinerario migliore per arrivarci. Mentre io vengo zittito con una sequenza di birre, si formano due partiti, quello del Tracciolino e quello della Bassa. Il Tracciolino è una pista fra i boschi, in parte sterrata, che congiunge in quota Oropa con la Serra di Ivrea; era quello che avevo in mente io. Passare largo per la pianura, arrivando addirittura a Chivasso, mi sembra a prima vista cervellotico. A sorpresa però vince il partito della Bassa - e vince, constaterò, a ragione. Appena comunicata la delibera, vengo esortato a partire causa l'ora tarda. Dopo una foto di gruppo, eccomi imboccare la galleria, il cui attraversamento è emozionante quanto sulle Apuane il Cipollaio senza fanale. Assai meno buia del Cipollaio, la luce che vi filtra fa rilucere placche levigatissime di roccia, dando una tale impressione di viscidezza che ci si chiede come faccia la bici a stare in piedi. Emozionante è tornare alla luce al cospetto della cupola del Santuario di Oropa, tanto grande che si fatica a credere che stia quattrocento metri sotto. La costruzione del Santuario fu iniziata nel Seicento, per un voto dei Biellesi contro la peste, eppure la chiesa superiore, quella col cupolone, fu ultimata solo nel 1960. Per gli appassionati di ciclismo il luogo evoca arrivi in salita, eppure non sono l'unico a piombarci dall'alto. Gli abitanti del paesino di Fontainemore, in val di Gressoney, ogni anno vi giungono in processione, camminando tutta una notte per traversare il Colle di Barma, 2261 metri. Visito il santuario in grande fretta, conscio che qui bisogna tornarci in tutta calma per visitare la schiera di cappelle del Sacro Monte (e la tomba di Quintino Sella, fondatore del CAI). La folla vociante che anima i prati circostanti ammonterà a diverse migliaia di persone. Durante la calata verso Biella, la transizione dal fresco all'afa della pianura si completa sorprendentemente in pochi metri di strada. Per le strade di Biella gireranno tre persone; senza badare a rosso verde destra sinistra posso uscirne con inusitata celerità; forse solo l'anno scorso, durante la semifinale dei Mondiali con la Francia, incontrai strade altrettanto deserte. Inneggiando all'intuizione geografica dei Biellesi, trascorro rapidamente per campagne e città fantasma, di nome Salussola, Cavaglià, Àlice Castello, Borgo d'Ale, Cigliano. Un improvviso tornante scuote la monotonia della strada: si scende al ponte sulla Dora abbandonando le estreme propaggini della Serra di Ivrea, a custodia della quale sta una prostituta nera come la pece, dall'aria alquanto simpatica. A Chivasso idealmente il giro finisce, in quanto qui mi riallaccio al percorso dell'anno precedente; mi restano probabilmente solo quaranta km per Lanzo, perché immagino che Pier Marco, secondo un copione sperimentato, mi verrà a recuperare all'imbocco della valle, conditio sine qua non per far quadrare gli orari della cena. Infatti, all'imbocco della valle di Viú, mentre spengo il fanale come faccio sempre in salita, si accendono dei fari al lato della strada: la staffetta è pronta, il giro davvero finito.

11. Rocciamelone m. 3538

Il Rocciamelone, fra le cime delle Alpi, è una delle piú ricche di storia e leggende. Niente a che vedere con lo strano nome, probabilmente un'endiadi che unisce la nostra roccia con il termine celtico mello che vuol dire pure esso roccia (e immagino avrà a che fare anche con la Val di Mello). Il fatto è piuttosto che, nel Medioevo, esso era ritenuto il monte piú alto d'Italia, grazie alla sua visibilità dalla pianura, e forse ancor piú grazie al dislivello di tremila metri col quale incombe su Susa. A proposito di dislivello, una guida alpina Valerio Bertoglio, quattro-cinque anni fa, fece in giornata tre volte andata e ritorno Susa-Rocciamelone, 18000 metri tra su e giú. Nel Medioevo invece nessuno si era preso la briga di salire in cima, e constatare che si ha davanti al naso lo Charbonnel duecento metri piú alto. Alla leggenda del Rocciamelone contribuisce il fatto che ai suoi piedi c' è la strada del Moncenisio, e lungo la strada l'abbazia di Novalesa. Nel Chronicon Novaliciense, secolo XI (lo ricordate a letteratura, insieme al Cantico delle Scolte Modenesi e a Salimbene de Adam da Parma...) si narra di un certo conte Romulo che, malato di lebbra, era solito trascorrere le estati in un imprecisato luogo presso la cima del monte, in suo onore detto Romuleo. Inutile dire che ci lasciò anche un tesoro, che non è stato mai ritrovato. Si è invece trovato sulla vetta il pesante trittico di bronzo portatovi da Bonifacio Rotario, nobile d'Asti, nel 1358. Costui, mentre si trovava in Oriente, aveva fatto voto di portare un'immagine sacra sulla cima piú alta delle Alpi, se solo si fosse salvato dai musulmani. Il trittico oggi è al Museo di Susa, e ogni 4 agosto viene riportato in vetta con solenne processione; il 5 c'è festa in cima. Ben piú pesante del trittico, la statua della Madonna alta tre metri fu portata in cima nell'agosto 1899 dagli Alpini, oltre un mese di lavoro. La festa del 5 agosto 1999 incorporava anche il centenario della statua: oltre duemila persone raccolte intorno alla vetta, illuminata per tutto il mese da due riflettori posti sulla cresta sud. Io e Pier Marco, tra le Madonne del 5 e del 15 agosto, scegliamo il 10 perché vogliamo scendere in Francia, a Bessans, ritornando l'indomani, in modo da sincronizzarci con l'eclissi in alta quota. Partiamo dalla diga di Malciaussia, alla testata della valle, in un'alba dalla luminosità surreale. Ancor prima delle otto, ora inusuale per i temporali, un nubifragio formatosi sulla cresta di confine ci infradicia prima che arriviamo al rifugio Tazzetti, dove il gestore scruta per noi le nuvole che turbinano attorno alla vetta. A un certo punto giudichiamo che un vento tanto freddo non può che portare il bello, e infatti la salita al Passo della Rossa avviene sotto il sole. Resistendo fortunatamente alla tentazione di scorciare per insidiosi nevai, arriviamo per il facile sentiero a mettere piedi sul ghiacciaio, o meglio su quel poco che rimane del ghiacciaio: Pier Marco che è pratico del luogo fatica a riconoscerlo. Il sentiero fa la spola fra ghiaccio e morena, questo non è male perché, viste le nuvole che si fanno avanti dalla Vanoise, è meglio procedere come Pollicino con tanti ometti. Il percorso finale lungo la cresta nord-ovest è impareggiabile per la grandiosità del panorama. C'è anche l'effetto speciale di qualche banco di nebbia che si forma dal nulla, e nel nulla scompare altrettanto improvvisamente. In cima non beneficiamo di tutte le potenzialità del panorama, perché le grandi cime verso nord sono coperte, ma questo è forse solo un bene, perché possiamo concentrarci meglio (il resto si lascia per la prossima volta) sulla veduta aerea del lago Malciaussia, della valle di Viú, della larga valle di Susa custodita al suo imbocco dalla sagoma inconfondibile della Sacra di San Michele. Sul versante opposto, ecco la cresta dell'Orsiera, il colle delle Finestre, la sterrata dell'Assietta: mi rivedo lí a pedalare al cospetto del Monviso, del Rocciamelone, della Barre des Ecrins. Anche sul Rocciamelone ci si potrebbe quasi arrivare in bici se fosse vero quello che sosteneva il gestore del Tazzetti, e cioè che è stato costruito su un dosso poco a nord della cresta da noi percorsa un nuovo rifugio cui darebbe accesso una sterrata dal Moncenisio. La verifica però è rinviata ad altra data, in quanto la manifesta inaffidabilità del tempo ci suggerisce di rinunciare alla traversata verso Bessans. L'indomani ci pentiamo di questa decisione, in quanto l'eclissi arriva a cielo praticamente sereno; invece che essere in giro per gli altri ghiacciai, ci accontentiamo dei mille metri dei Tornetti di Viú. Durante i fatidici due minuti troviamo anche il tempo di guardare verso il Rocciamelone per convincerci che - cosa patentemente falsa - se fossimo lassú avremmo cielo coperto. Il pomeriggio stesso saliamo in bici a Malciaussia: il tratto finale, oltre il paese di Margone, è notevole per la fantasia con la quale la stretta strada si trova un percorso fra le rocce montonate, inerpicandosi da ultimo su una ripido fianco roccioso, con vedute notevoli sulle grangie del fondovalle sottostante. La pioggia quotidiana è particolarmente mite. Dal lago rivediamo i tornanti di un sentiero, che avevamo adocchiato già il giorno precedente, e che sale al Monte Lera, panoramico scoglio che domina il tratto di valle tra Lèmie e Usseglio.

12. Monte Lera m. 3355

Il giorno dopo siamo in moto verso la Lera. Il sentiero che, visto dal basso, sembrava salire a gran velocità, è invece una macchinosa mulattiera militare di lunghezza infinita. Ci vogliono due ore per raggiungere il pianoro a 2600 metri, dove il tracciato militare piega verso il Colle dell'Autaret e la Francia, e una traccia poco definita sale in direzione della vetta per un vallone a ripiani, uno dei quali ospita un lago e grossi nevai. Verso i tremila metri si annuncia burrasca. Bessi è terrorizzata; Pier Marco si ferma con lei sotto una roccia mentre io decido di cercare la via della vetta nella nebbia delle pietraie sommitali. L'evoluzione del tempo mette le ali ai piedi; arrivo a un risalto quasi verticale che porta alla cresta sommitale quando inizia a nevischiare. Ormai però decido di proseguire; mentre sto arrampicando sul filo di cresta ormai viscido cominciano lampi e tuoni; un unico estemporaneo squarcio mi lascia vedere il bel ripiano del lago di Peira Ciaval. La statua della Madonna che occupa la vetta emette un ronzio piuttosto eloquente: arrivo a una rispettosa distanza di qualche metro e batto in ritirata, prestissimo possibile come diceva qualche compositore tedesco. Vedo che i due compagni saggiamente si sono avviati, ci troviamo qualche ripiano piú in basso, e la spedizione si conclude sotto la pioggia battente, con le erbe piegate dall'acqua sul sentiero ci infradiciano fino alle mutande. Grazie soprattutto alla furbizia che abbiamo entrambi di lasciare i copripantaloni nello zaino. Quando la sorella di Pier Marco mi vede girare, quale primo reduce dalla Lera, in mutande per le vie fortunatamente deserte di Versino, si mette a ridere, e il fenomeno è praticamente irreversibile. Il resto del pomeriggio lo si passa entro un raggio di due metri dal fornello a kerosene. Il giorno seguente ci vede in viaggio per Chivasso, dove la sorella di Pier Marco comprerà una nuova stufa, e io prenderò il treno. Detto per inciso, è la piú bella giornata dell'estate, dal Monviso al Monte Rosa è una magnifica parata di cime innevate di fresco. Ma non poteva finire cosí; puntuale sopra la stazione di Marter si fa trovare un nero temporale. Altrimenti non sarei stato onesto dicendo di aver preso pioggia ogni giorno.

Riassunto

In questo racconto abbiamo visto - o, piú spesso, immaginato tra le nuvole - i maggiori massicci alpini. Abbiamo visto nascere l'Oglio, l'Adda, l'Inn, il Reno, la Reuss, l'Aare, il Rodano, il Ticino. Non un solo giorno è mancata la pioggia, non un solo giorno è mancato il sole. Dal passamontagna al costume da bagno, niente è rimasto inutilizzato. Va da sé che, se anche il racconto fosse riuscito poco vario, il giro non lo è stato. I km sono stati 1131 km, circa 28500 i metri di salita, per una pendenza media del 5 per cento. Sedici valichi: Ampola, Giogo di Bala - Croce Dominii, Gavia, Alpisella, Forcola di Livigno, Bernina, Albula, Oberalp, Susten, Grimsel, Furka, Gottardo, Nufenen, Folungo, Bocchetta di Sessera, Colma di Oropa.
Sei cime: San Matteo m 3678, Piz Blaisun 3210 metri, Gross Muttenhorn m 3099, monte Zeda 2156 metri, Rocciamelone 3538 metri, Lera 3358 metri.
Le cime piú belle: Zeda e Rocciamelone.
I tratti imperdibili, limitandosi a oro argento e bronzo: la traversata Anfo - Baremone - Maniva - Croce Dominii; il Passo Susten; la strada panoramica sopra il Lago Maggiore.