In giro per le Alpi
Estate 1999
di Alberto Pedrotti,
albertopedrotti@gmail.com
- 01.
Marter (500) - Trento (192) - Vezzano (385) -
Riva (69) - Àmpola (725)
[100 km, 1200 m]
- 02.
Àmpola (725) - Anfo (368) - Rif. Baremone - Passo Maniva (1664) -
Giogo di Bala (2162)
- Passo di Croce Domínii (1892) - Breno (328) -
Édolo - Ponte di Legno - Passo Gavia (2621)
[157 km, 4500 m; 257 km]
- 03.
Passo Gavia - San Matteo (3678) -
Passo Gavia - Santa Caterina Valfurva
[18 km, 1300 m; 275 km]
- 04.
Santa Caterina - Bormio (1217) - Torri di Fraele (1941) -
Passo dell'Alpisella (2285) - Livigno (1816) -
Fórcola di Livigno (2315) - La Motta (2054) -
Passo Bernina (2323) - La Punt (1687) -
Passo Albula (2316)
[110 km, 2550 m; 385 km]
- 05.
Passo Albula - Piz Blaisun (3208) -
Passo Albula - Tiefencastel (851) - Alvaschein (1001) - Thusis (723)
- Strada di Ruinaulta - Ilanz (699) - Disentis (1143) - Sedrun (1400)
[128 km, 2500 m; 513 km]
- 06.
Sedrun - Passo Oberalp (2044) - Andermatt - Wassen (935) -
Passo Susten (2224) - Innertkirchen (622) -
Passo Grimsel (2165) - Gletsch (1759)
[115 km, 3600 m; 628 km]
- 07.
Gletsch - Passo Furka (2431) - Hospental (1456) -
Passo del S. Gottardo (2108) - Airolo (1050 ca) -
Passo Nufenen (2478) - Paltano (1877)
[88 km, 3600 m; 716 km]
- 08.
Paltano - Bellinzona (225) - Locarno - Cànnero Riviera (197) -
Viggiona (700 ca)
[130 km, 700 m; 846 km]
- 09.
Viggiona - Passo Folungo (1369)
- Monte Zeda (2156) -
Passo Folungo - Premeno - Verbania (197) - Omegna -
Pogno - Cremosina (599) - Borgosesia (354) -
Trivero (800 ca)
[130 km, 3150 m; 976 km]
- 10.
Trivero - Panoramica Zegna - Bielmonte (1517) -
Rosazza (881) - Colma di Oropa (1485) -
Santuario di Oropa - Biella - Salussola -
Cigliano - Germagnano
[155 km, 2000 m; 1131 km]
- 11.
Rocciamelone (3538)
[0 km, 1750 m]
- 12.
Lera (3355)
[0 km, 1550 m]
Totale: 1131 km, 28400 metri, pendenza media 5.02%
Estate 1999. Siamo verso la fine di luglio; si pone il problema di inventare
una vacanza di qui a Ferragosto. Per il 31 luglio la SAT di Pergine
propone una salita al San Matteo. Per il 10 agosto circa
sono invitato dal mio amico Pier Marco Bertinetto
a comparire a Viú, nelle valli di Lanzo.
Un calendario che sembra congegnato apposta per suggerire il seguente giro.
01. Marter - Àmpola (100 km, 1200 m)
Partenza all'una di pomeriggio, il nuovo per me comincia già a
Trento ed è meglio del previsto, in quanto la galleria del Bus de Vela
si rivela non troppo velenosa. Alle Sarche ho la favorevole intuizione di
passare per Pergolese e il lago di Cavédine, una strettissima
strada che serpeggia tra piantagioni di meli, kiwi e prugne. Passato il
lago, il paesaggio riarso delle Marocche di Dro mi suscita nostalgie di
Corsica. Dirigo poi verso Riva sperando di poter imboccare la strada del
Ponale, che poco tempo addietro il giornale Alto Adige dava chiusa
perentoriamente anche alle bici. Fortunatamente, se l'ingresso
alla prima galleria è sigillato da una rete, provvidenzialente in questa
non manca un pertugio. La
salita è tutta una scoperta; in alcuni tratti
il muretto protettivo della strada incombe con perfetto aplomb
sull'acqua increspata da un furioso scirocco e, piú in là,
bianca di vele. La strada del Ponale vive ormai fuori dal tempo, però
sulla Gardesana Occidentale sembra che l'ANAS e le normative europee
abbiano concertato un piano per distruggere questi pittoreschi muretti. A
un certo punto c'è il bivio per Pregàsina; a proposito di
questo ameno paesino consiglio la lettura del paragrafo "Il contributo di
Pregasina alla causa della grappa," nel libro di Marco Simonetti, "La mia
grappa," editore Reverdito. In corrispondenza di una breve successione di
tornanti, gli oleandri sembrano addirittura volersi mangiare la strada.
Presso lo sbocco della moderna galleria che dà accesso alla Valle di
Ledro, la strada del Ponale è chiusa da una stanga. Senza il
provvidenziale aiuto di un energumeno tedesco dovrei svestire la bici di un
po' di bagagli per sollevarla oltre l'ostacolo. Non meno gradita si rivela
la fontana a Biacesa prima della ripida rampa che dà accesso a Molina
di Ledro, tranquillo paese di mezza montagna, nonché patria del
conte Andrea Maffei, librettista verdiano. Prima che a Bezzecca incalzino
nuove reminiscenze risorgimentali, costeggiando il lago di Ledro ho tutto
il tempo di fare pronostici sulle nerissime nubi che si addensano sopra il
Tremalzo ed il Càdria. A Tiarno piove già copiosamente:
meglio sfruttare il riparo offerto dall'Atesina, anche se in piena piazza
del paese, per far bollire il primo piatto di spaghetti della spedizione.
Ripartendo maledico la ruvidezza delle strade ledrensi, non avvedendomi
che ho la ruota anteriore libera d'andarsene da un momento all'altro.
Pioggia e perplessità meccaniche avallano l'idea di piantare la
tenda in un tranquillo fazzoletto d'erba dietro la locanda
dell'Àmpola, presso l'omonimo lago.
02. Àmpola - Gavia (157 km, 4500 m)
Discesa lungo la
stretta valle di un ignoto torrente di nome Pàlvico. Da Storo poi,
tenendomi sulla sinistra del Chiese, raggiungo Bondone e Ponte Caffaro. Si
acquista un po' di quota, rispetto al lago d'Idro, fino al bivio per
Bagolino, dove devo fare i primi calcoli. Stasera debbo essere al Gavia, e la
pioggia di ieri mi ha ritardato. L'idea iniziale era quella di seguire
l'integrale della cresta Baremone - Maniva - Goletto delle Crocette - Giogo
di Bala - Croce Dominii. Ma, data la situazione, che sia meglio
semplificare, tagliando verso Croce Dominii per Val Dorizzo? Dopo un po'
opto per la linea dura, ed eccomi ad Anfo, 390 metri, dove inizia vigorosa la
salita che porta in 11 km ai 1450 metri del Passo Baremone. Strada splendida
per linea, arditezza, esposizione, panorama; avventurosi tornanti
aggrappati a ripidi gerbidi e affioramenti calcarei. Dalla carrozzabile
di tanto in tanto si dipartono sentieri e mulattiere verso la cresta che
scende da Cima Ora al Monte Censo, e di lí con un unico balzo alla Rocca
di Anfo ed al lago. La salita è gradevole, regolare; la pendenza non
si attenua mai. Al rifugio Rosa al Baremone caffè e chiacchiere con
ciclisti locali che di buon mattino si sono applicati a questo cimento. Dopo
il rifugio la strada diventa sterrata e si addentra in una breve conca prima
di guadagnare i 1521 metri del Passo della Spina, luogo assolato dove mi
fermo per asciugare i tendami, che ne hanno gran bisogno e, nel contempo, per
godermi con calma la vista sulla sottostante valle del torrente
Abbioccolo, dove spiccano i verdissimi alpeggi di Vaiale. La sterrata
scende, ricavata arditamente nel fianco meridionale della Cima di Baremo,
con un paio di gallerie buie. Dopo un gradevole tratto in cui si segue
filologicamente il filo della cresta, ecco un nuovo strappo che, fra malghe
alpeggi sulla destra, pinnacoli calcarei sulla sinistra, conduce al Passo
delle Pirole 1720 metri, donde per l'ampio fianco del Dosso Alto si obliqua
fino ai 1669 metri del Passo Maniva, sovrastato da amplissimi pendii,
sorvegliati a loro volta da due immense antenne paraboliche, che
già vanno scomparendo nella nebbia. Ha l'aria di località
turistica un tantino in declino, questo passo che in realtà passo
non è, in quanto la via maestra vi prosegue verso l'alto; dal gran
piazzale ricavato sulla cresta, tuttavia, intravvedo una sterrata che,
sconosciuta alle carte geografiche, scende su Bagolino. Poco sopra il
passo, ecco il triste incontro coi rottami del rifugio Bonardi, dopo il
quale la strada si espone sempre maggiormente sul fianco meridionale del
Monte Dasdana ove, affiancata poco sopra dal vecchio tracciato militare,
supera abbondantemente i duemila metri. Un'improvvisa discesa mi
sorprende nel fitto della nebbia; quando ricomincia dura la salita un equo
squarcio mi rivela il laghetto di Dasdana sulla destra, e i due laghi di
Ravénola sulla sinistra. Poco dopo scopro che la sede delle due
antenne si chiama Dosso dei Galli, 2196 metri, e che lassú mira
l'asfalto; pur tuttavia, è l'esile sterrata che continua in
leggera pendenza verso il Giogo di Bala a fregiarsi del titolo di statale
345; fra mucche e pozzanghere, di tanto in tanto un cartello enumera i
chilometri. Passate altre traversie altimetriche, passata una pozza
detta Lago di Làvena, ecco ripidissima la planata finale sul passo
di Crocedominii, in stretta simbiosi con una cresta che assomiglia tanto al
sommo di un calanco appenninico. Al passo, le pareti del rifugio abbondano
di immagini del Nepal e della piramide del CNR; da queste parti ci deve essere
qualche guida alpina forte in spedizioni. Mentre a destra la strada
salirebbe ancora un poco fino al Goletto del Cadino, sul versante camuno una
dolce discesa mi scodella nell'ampia conca dove sorge il rifugio Bazena,
dopodiché la strada diventa uno strettissimo budello fino al bivio
per Astrio, ove inizia l'ultima planata su Breno.
Sono a 300 metri e mi attendono oltre 50 km di avvicinamento all'attacco del
Gavia. Ma, a parte l'afa e il traffico, la risalita della Val Camonica
è rallegrata da gradevoli spunti: scorci ora sulla Concarena, ora
sui fianchi dell'Adamello dove le frazioni di Saviore sono appollaiate in
magnifica esposizione su prati incredibilmente ripidi. Dopo un
rifornimento a Edolo, verso le sette sono a Ponte di Legno, dove invano cerco
di contattare la truppa del Gavia. Un po' dubbioso e un po' indispettito, mi
metto a salire mentre il tempo cerca di decidersi se piovere o non piovere.
Ecco Sant'Apollonia protettrice dei denti; denti che vanno stretti sul
susseguente strappo al sedici per cento. Intanto ecco la decisione
definitiva del tempo: piove. Sopra i duemila ci si mette la nebbia. Poco dopo
il buio. Poi è di scena la galleria, dove l'andatura è tale
che è meglio dimenticarsi della dinamo e tirar fuori la lampada
frontale. Presso l'uscita, mi ricordo del parcheggio che facemmo con
Gabriele nel 96: era il due novembre, obiettivo, un fuori stagione
scialpinistico al Tresero, e il vento aveva coalizzato grosse masse nevose
contro il viandante che tentasse di uscire dal traforo. Anche oggi
però all'uscita c'è la sorpresa: mentre spengo la pila mi
sento chiamare da un paio di metri. A lato della strada è ferma una
macchina, sono gli amici che mi sono venuti a cercare. Perché non
arrivi? E voi, perché non rispondete al telefono? semplicemente
perché al Gavia non riceve. Mentre i fari dei soccorritori
scompaiono su per gli ultimi tornanti, continuo lento la mia salita sotto la
pioggia e piú in alto supero il luogo dove mi cucinai una minestra
Knorr aspettando che passasse il giro, nel 96; i prati tutt'attorno erano
disseminati di biciclette. Oggi la salita è meno conviviale e meno
panoramica, ma anche venir su col buio è un'esperienza nuova, in
particolare perché, di tanto in tanto, si viene sorpresi da qualche
impennata che letteralmente lascia fermi sui pedali. Dante direbbe forse
che salita previsa vien men lenta. Passata la luce del Rifugio
Bonetta, alla quale oggi si riduce il pregiato panorama del passo, sento una
nuova voce nel buio, è Franceco, il presidente della SAT di Pergine,
che mi invita a cena nel suo camper. Debbo declinare, nei cameroni del
rifugio saremo già alle barzellette della buonanotte e io devo
ancora assemblare uno zaino. Arrivato a destinazione apprendo che
d'ufficio mi è stato prenotato un letto; per stanotte niente tenda.
03. Gavia - Santa Caterina (18 km, 1300 m)
Sveglia alle quattro, gli esperti hanno deciso che il brutto tempo va
battuto proprio sul tempo. E invece il tempo ha meno fretta degli esperti:
solo a metà mattina si decide, e nella fattispecie decide al bello.
Ardui problemi quando mi lego in cordata, vengono contestati i miei nodi. Mi
difendo spiegando che sono quelli che appresi al corso del CAI, sei anni fa.
Ma adesso imperano le novità, nodi a palla e a coda di vacca, i miei
sistemi sono obsoleti. Mi par d'essere Wozzeck con lo Herr Hauptmann che gli
spiega es gibt eine Revolution in der Wissenschaft, ma alla fine
troviamo l'accordo piú logico, io penso ai miei nodi e gli altri
pensano ai loro. La salita della cresta finale è come al solito
entusiasmante, al cospetto della cornice sommitale da cui cadde Julius
Payer il 21 settembre del 1867 e, ritrovandosi miracolosamente incolume,
intitolò la cima al santo in calendario. Soltanto nel panorama
stento a riconoscere la cima dalla quale un giorno, con un 500 mm, fotografai
nei dettagli la parete est del Monte Rosa, che spuntava dietro il Disgrazia e
lo Scalino. Vi sono ormai nubi appoggiate a tutte le montagne; ulteriori
cumuli stazionano a mezz'aria sopra la Val di Sole e il bacino dei Forni.
Anche se la discesa si svolge in una fornace ardente, quando arriviamo al
rifugio già piove. Poco male per quelli che se ne tornano a casa, un
po' peggio per me. Appesantito da salsicce e formaggi dimenticati dai
colleghi e che non ho avuto animo di abbandonare, comincio la picchiata su
Santa Caterina, dove mi metto stupidamente a gareggiare con un panciuto
temporale che risale la Valfurva. Scappo quindi verso la Valle dei Forni;
trovo da mettere la tenda ma, manco a dirlo, non ci entro asciutto.
04. Santa Caterina - Passo Albula (110 km, 2550 m)
Quest'oggi sveglia ben dopo le quattro. Rapida planata su Bormio, gli occhi
fissi sui meravigliosi prati dove si distendono le frazioni di Valfurva,
sotto l'incombente barriera di Reit. A Sant'Antonio, sul muro che ospita le
insegne dell'albergo Zebrú, una vetusta prescrizione recita:
Automobili, motociclette e altri veicoli: proibita corsa oltre gli 8 km
l'ora. Da Bormio verso Premadio si va per tranquilli prati; poi attacca
la sterrata militare delle le Torri di Fraele, che dopo qualche tornante
effettua un lungo traverso sopra l'abitato di Pedenosso; compare la Val
Viola, e la slanciata sagoma del Corno di Dosdé che la domina a
sinistra. Voltandosi indietro, ecco le abbaglianti nevi delle Tredici
Cime, e ancora, a sud, il severo fianco nord ghiacciato della Cima dei
Piazzi. Per godere con piú calma del panorama, ad un torrente
organizzo una prima seduta di lavaggio panni. Seguono, in vista delle
torri, gli ultimi tranquilli tornanti del tracciato, dominati dalla
muraglia delle Cime di Plator. Quasi al sommo del percorso si stacca a
sinistra la diramazione pianeggiante per Arnoga, alla quale dovrei
tornare, dopo aver dato un'occhiata ai laghi di Cancano, a meno di non
decidere poi per l'Alpisella. Quest'ultima ipotesi sulla carta è
alquanto avventurosa; anche se ieri un ospite del Berni mi rassicurava
sullo stato della salita dai laghi, la vera incognita rimane la mulattiera
sul versante Livigno.
Dalle Torri la strada si addentra in una stretta, costeggiando il Laghetto
delle Scale, difeso dall'insegna "stagno privato." Poi appaiono i laghi e i
monti che li incorniciano: pareti imponenti in alto, cumuli di detriti
appena sotto. Ci sono tre soli colori in questa conca: quello della roccia,
quello dei cirmoli, quello dei laghi e del cielo. Quando riparto dopo il rito
dell'asciugatura, vengo agganciato da un esuberante ciclista di
Conegliano, il quale è di stanza a Livigno, e ogni giorno colleziona
una sterrata diversa. Mi parla con particolare trasporto della Val
Federía, nella quale a sua detta si raggiungono in sella i tremila
metri. In fondo al lago di San Giacomo ecco il Passo di Fraele, 1952 metri, con
una chiesetta; la valle retrostante scenderebbe al lago del Gallo e al
tunnel di Livigno, ma la strada si perde prima di arrivarvi. Questo spiega
perché questo passo sia cosí poco noto, benché sia
uno dei rari punti dove lo spartiacque alpino cede sotto i duemila metri, tra
le Marittime e San Candido - la lista è presto fatta: Tenda,
Maddalena, Monginevro, Lucomagno, Maloja, Fraele, Resia e Brennero.
Decido di curiosare su per l'Alpisella, e comincio a macinare tornanti su
ghiaia grossa ma comunque pedalabile. In seguito, la strada si addentra
nell'alto ripiano del passo con un lungo traverso che lambisce le sorgenti
dell'Adda. Le ondulazioni sommitali sono occupate da minuscoli laghetti,
e sono chiuse sulla destra da un formidabile pendío detritico che
scende con spettacolare regolarità dal Pizzo della Cassa del
Ferro. E qui comincia il bello: la vecchia mulattiera è in
abbandono, si scende per un sentiero i cui muretti sono in restauro, a cura
del Parco Nazionale dello Stelvio. Ho decisamente sconfinato nel regno dei
mountain-bikers, ed ecco infatti salirne da Livigno decine, chi trafelato
in sella, chi piú realisticamente spingendo, cosa che a tratti
faccio anch'io, perché mi sembrerebbe prematuro fracassare la
bici, o il bagaglio, o il ciclista. Con qualche tornante nel bosco il
sentiero conduce al pezzo forte, al passerella in legno che a quota 1923
sostituisce il vecchio ponte che è stato fatto saltare, c'è chi
dice per via dei contrabbandieri e chi dice per via delle moto. Ci passa una
sola persona alla volta, meglio se non troppo pingue; i miei bagagli sono
fuori sagoma e vanno smontati e rimontati - non prima di aver commissionato
ai passanti una foto del trasbordo. Superato qualche tratto franato, il
tracciato si trasforma in una civilissima sterrata che conduce al Ponte
delle Capre, m 1791, presso il lago, e di lí in pochi km a Livigno.
Ultimo rifornimento italiano; qui anche per comperare un cartone di latte
bisogna farsi tutta una trafila di ordinatissimi scaffali ricolmi di
azzimati liquori. Una buona bottiglia di rosso farebbe anche gola, ma non
sarebbe compatibile con la susseguente salita della Fórcola. La
pendenza della quale, a dire il vero, comincia ad essere percettibile solo
passata l'Alpe Vago, per diventare decisa decisa dopo il cosiddetto Baitel
del Gras degli Agnelli, posto prima dei paravalanghe finali, e dal quale si
potrebbe facilmente salire al Passo del Fieno per raggiungere il Monte
Breva, 3102 metri (la breva sarebbe il vento che risale la val
Poschiavina). A malincuore accantono la salita, pensando che
rinunciandovi, riuscirò a raggiungere stasera l'Albula donde
domattina potrei tentare l'assalto al Piz Kesch. I doganieri non mi degnano
di attenzione; visti i mezzi immagineranno che avrò stipato la
merce di contrabbando con ragionevole parsimonia. Spettacolare la
subitanea apparizione del Piz Palü, splendidamente candido nel
controluce del tardo pomeriggio, movimentato dall'irrequietezza delle
nubi. Sotto una gradevole combinazione di sole e leggera pioggerella,
scendo verso La Motta, contornando i fianchi dell'alto calanco detto dei
Gessi. In corrispondenza della dogana svizzera, a 2054 metri, ci si immette
in medias res nella salita del Bernina, che da qui fino al passo
mantiene una pendenza costante, direi del 12%. Il panorama sulle pareti del
Pizzo Cambrena è noto; ma non da meno è quello sulla valle
Poschiavina, bipartito dalla sagoma del Piz Campasc, il quale separa il
valico stradale da quello orografico che ospita invece la ferrovia.
Graduale e gradevole la discesa verso l'Engadina, al cospetto della
piramide del Piz Ot che, si parva licet, vigila su questa valle un po'
come il Bietschhorn domina la valle di Saas. Si lasciano presto indietro le
varie funivie; prima quella del Piz Lagalb che porta all'Alpinarium, lo zoo
piú elevato d'Europa; indi quella della Diavolezza che porta al
cospetto del Vadret Pers, e quindi nel cuore del massiccio. A destra il Piz
Alv, che vuol dire bianco; vedendo la sua roccia chiara illuminata di sbieco
attraverso l'unico squarcio nelle nuvole, si plaude al nome. Ma la grossa
riserva del bianco appare alla curva del Montebello, dove la vista si apre
sul ghiacciaio di Morteratsch e sul Biancograt-Crast'Alvra del Bernina.
Seduto su un sasso al di là della ferrovia, penso alla primavera del
96, allorché con Gabriele salimmo in giornata dal passaggio a
livello di Morteratsch fino ai quattromila metri: rivedo la levata nella
tenda incrostata di ghiaccio; le diversioni indesiderate tra le gobbe
della morena; l'anfiteatro ove confluiscono i fiumi di ghiaccio del Vadret
Pers, del Labirynth, del Buuch. Ricordo come in quel plateau la
notte improvvisamente cedette il passo al sole abbagliante. Altre volte ci
è capitato di essere tutti soli su montagne grandiose: Gran
Zebrú, Obergabelhorn, addirittura la Jungfrau... però
mai come quel giorno, abbiamo avuto l'impressione di possedere un
massiccio alpino tutto per noi. Ricordi ben diversi suscita la bastionata
rocciosa del Fortezzarücken dove un perfido filo d'acqua ci
adescò ad un rifornimento per poi scaricarci addosso una valanga di
lastre di ghiaccio; quando giú alla ferrovia levai gli sci, scoprii
di essere zoppicante.
Dal Montebello è una volata fino a Ponteresina; unica precauzione,
voltarsi ogni tanto per ammirare i tre spigoli del Piz Palü che la
prospettiva rende via via piú maestosi e anche piú
spaventevoli. A Pontresina invece è spaventevole e quasi
opprimente la magnificenza degli alberghi. Richard Strauss
cinquant'anni fa vi componeva due dei suoi Vier Letzte Lieder.
Und die Seele unbewacht
will in freien Flügel schweben
um im Zauberkreis der Nacht
tief und tausendfach zu leben.
È pensando a questi versi che mi addormento su un muretto. Quando il
freddo penetra nella giacca a vento, e il sole scende dietro le montagne del
Güglia (Julier), mi rimetto in moto, sorvegliato ancora dal Piz Ot. Mi
pare che il suo slancio abbia qualcosa a che fare con l'assolo del violino nel
terzo Lied. Lungo l'Inn, l'aria frizzante mi fa venire in mente il passo di
Schnitzler dove la signorina Else chiede al vecchio e noioso signor Von
Dorsday
"come mai oggi non dice che l'aria è come lo champagne? - Ma
signorina Else, questo lo dico a partire da duemila metri, e qui siamo ad
appena milleseicentocinquanta metri. - Fa tanta differenza? - Ma si
capisce. È mai stata in Engadina?"
Dai 1650 metri di La Punt si può contentare Dorsday salendo ai 2313
dell'Albula. Fino a quota 2250, una pendenza continua intorno al 12% cede
solo nelle battute iniziali, quando si attraversano i binari della
ferrovia a scartamento ridotto - quindi per poco. La salita per il resto,
anche se breve, è d'impegno. A due km dal passo, finite le rampe,
è anche tempo di cercare sistemazione. Il vento freddo e
l'umidità che regna nei prati, fra immense chiazze di neve rimaste a
memoria di passate valanghe, mi spingono alla prosaica soluzione di
sistemarmi nella piazzola ove parcheggiano gli alpinisti diretti alla
Chamanna d'Es-cha e al Piz Kesch. Grave caduta in fatto di wilderness,
ma buon sistema per tenere il sedere asciutto.
05. Passo Albula - Sedrun (128 km, 2500 m)
Comincio la nuova giornata, che si preannuncia favorevole, come avevo
concluso la precedente, ossia esaminando la slanciata cresta che mi
sovrasta, e che non riesco a giudicare per via dell'ardita prospettiva. Non
si capisce se tre chiazze bianche che la interrompono siano dei bonari
accumuli o dei fieri ostacoli, quelle lame di neve che i francesi chiamano
bourriques perché i pionieri ignari di ramponi vi
passavano à califourchon. Interpello un escursionista,
cui uno scatolone di cartone trasformato in zaino conferisce un'aura da
montanaro tosto. Questi mi rassicura sulla natura elementare della salita
al Piz ***; qui la comprensione scema perché, si sa, nel parlare i
tedeschi accelerano quando meno dovrebbero. Il nome della cima l'ho
appreso solo con opportuni studi alla biblioteca della SAT, si chiama Piz
Blaisun. La salita è ripida, prima a quattro zampe sui prati, poi a
quattro zampe sul Geröll che mi era stato preannunciato dal
tosto; la cresta è invece una comoda passeggiata, dove ci si
può godere una vera esposizione di ometti dalle geometrie
piú ardite. La roccia infatti vi si frantuma in scaglie sottili e
allungate, particolarmente adatte all'uopo. In vetta ci si trova proprio
al cospetto della muraglia del Piz Kesch; se sulla sua cima vi fosse qualche
vociante comitiva, non si avrebbe difficoltà a sentirla.
Stranamente però stamattina la piú alta sommità
dell'Engadina sembra deserta. L'altimetro segna 3210 metri, e il panorama
spazia dal vicino Piz Uertsch ai verdi pascoli appena intravisti della Val
Tuors, ai monti della Ducan, al Silvretta; a sud grandioso il Bernina.
Nuvoloni che si alzano ovunque suggeriscono però di non dilungarsi
in considerazioni topografiche. Per il ritorno, trovo un vallone dove
lingue di neve che convergono a un laghetto ghiacciato si alternano a lingue
di fango sul quale si scia non meno piacevolmente. Appena ho rifatto il
bagaglio della bici, si mette a piovere; raggiunto il passo, decido di
affrontare la discesa nonostante le condizioni, poiché temo,
fermandomi, di congelarmi come avvenne l'anno scorso sull'Izoard. La
strada scende prima verso il ripiano che ospita il lago di Palpuogna e il
paese di Preda, indi verso Bergün, dove sopprimo causa pioggia la
tradizionale passeggiata che permette di ammirare le antiche iscrizioni
sulle case. Eccomi quindi, scesa la gola detta Igl Crap, a Filisur,
altro paese di case dipinte, indi al fondovalle della Landwasser. Dopo
Tiefencastel, la risalita di Alvaschein è addomesticata da un
tunnel peraltro vietato alle bici, che conduce rapidamente a un alto ponte
sull'Albula, con vista splendida sul ponte della ferrovia e su quello
vecchio della strada; come e piú che a Mostizzolo. Dopo aver
superato con l'aiuto di qualche tunnel la gola dello Schin, la strada plana
su Sils, con dirimpetto le numerose frazioni che popolano lo Heinzerberg.
Quando smette di piovere, riparto verso la stradina che infila tutti i
paesini della Domleschg, reputandola piú interessante della
statale del San Bernardino. La previsione si rivela corretta, passo per una
sequenza di paesi tutti fioriti, solo i saliscendi sono piú
ragguardevoli di quanto avessi preventivato, specie per lo strappo che
conduce alla rocca presso Paspels, con successiva pericolosa planata su
Rothenbrunnen. Qui si traversa il Reno Interiore, incredibilmente ricco
d'acqua, complice la quantità di neve che ancora si sta sciogliendo
in montagna. Davanti a me, sulla Ringelspitze, gruppo del Sardona,
amplissimi lenzuoli di neve scendono fino a 1500 metri, in pieno versante
sud. A Bonaduz, dove confluiscono i due Reni, il mio percorso prende una
decisa sterzata verso ovest. La strada che va verso Ilanz evitando Flims
comincia con un lungo rettilineo in un'abetaia; celebre la veduta che si ha,
all'uscita, alti sul Reno Anteriore che scava i suoi meandri nell'immensa
frana che gli è caduta addosso dal Piz Sardona. La strada, detta
anche di Ruinaulta, prosegue, scolpita nel conglomerato, fino al
ponte sulla Rabiusa, seguito da una dura risalita a tornanti con la quale si
guadagna una forcella presso Versam. Dopo Carrera c'è un alto ponte.
Appreso dalla carta che quell'acqua scende direttamente dalle cime, trovo
un varco per raggiungerla e fare finalmente un bel bagno. Cosí
rinnovato, completo la gradevole discesa su Ilanz. Rinnovo anche lo
stomaco con due litri di roba fra latte e yoghurt, indi comincio a risalire
verso Disentis. Nell'alta valle del Reno Anteriore, si intuisce
l'incombente presenza del Tödi, dai cui ghiacciai defluiscono
impetuosi torrenti (quello della Val Russein forma una cascata maestosa);
tuttavia esso rimane sempre nascosto, scortato com'è da possenti
avancorpi rocciosi. Tengono invece compagnia a sud i ghiacciai del Piz
Medel, tranquillissimi nella luce della sera. A Disentis è d'uopo
una visita all'abbazia: risalente al Medioevo, è stata
risistemata in modo quanto mai barocco da un certo architetto Moosbrugger -
che immagino non sarà quello di Musil; caratteristico il minuscolo
cimitero all'ingresso della chiesa. Guardo alla valle del Lucomagno; con
breve diversione potrei raggiungere il passo stasera, per salire
domattina la piramide dello Scopí. Poi però decido di
lasciare tutto ciò per altra occasione; eccomi allora a salire la
Val Tavetsch, in direzione Oberalp. Le cime sono presidiate da nuvole
nerissime; a Sedrun un estemporaneo montaggio della tenda mi salva dalla
pioggia incipiente - un po' meno dall'acqua della pasta che riesco
chissà come a rovesciare tutta all'interno.
06. Sedrun - Gletsch (115 km, 3600 m)
Sveglia di buon mattino, prima che magari mi caccino gli Svizzeri; un
pallido sole mi accompagna sui tornanti dell'Oberalp, oltre le poche case
di Tschamut. Di là dal passo il tempo promette nuovamente male;
scendendo su Andermatt, considero se non sia il caso di tagliare il
progettato girotondo del Damma, attraverso Susten Grimsel Furka. Mentre
faccio colazione in paese il primo raggio di sole della mattinata è
sufficiente per convincermi a non fare tagli al percorso. Scendo per la
ripida gola della Schöllenen. che anticamente si chiamava
Urnerloch, ossia buco dell'Uri; allo stesso modo, la località
soprastante si chiamava Ursteren; prima di diventare An der
Matt (sul prato). Gallerie e tornanti si susseguono sotto
impressionanti placche sulle quali si muove un lungo serpentone di
scalatori, forse una scuola di roccia per coloro che non temono ombra
né umidità. C'è anche un ponte del Diavolo; al museo
del Gottardo apprenderò che fu teatro di una storica battaglia
delle truppe del generale russo Suvorov, ai tempi di Napoleone. Stretto
com'è fra i tornanti della strada e la cremagliera, il ponte ha
l'aria di un reperto un po' straniato. A Göschenen, allo sbocco
dell'omonima valle laterale, appare splendida la muraglia orientale del
Damma; proprio mentre si inabissa la ferrovia, preceduta in questo un poco a
valle dall'autostrada del Gottardo. Fa un certo effetto, provenendo dai
duemila metri dell'Oberalp, trovarsi cosí all'improvviso tra
immensi stradoni e grovigli di binari. A Wassen si riparte da 935 metri: un
ultimo sguardo alle piramidi dei Windgällen, e subito un paio di
tornanti conducono entro una gola, all'inizio della quale accade di
incrociare la ferrovia due volte. La soluzione del caso è che in
realtà vi sarebbe in terzo incrocio, senonché anche la
ferrovia sta descrivendo un suo tornante, e lo completa in galleria. Dopo un
bosco di larici, si esce sopra il verdissimo fondovalle della Meiental. A
sud, il prodigioso balzo di oltre duemila metri del Fleckistock; davanti,
le splendide rocce calcaree del Grassen e del Fünffingerstock,
disseminate di lingue di neve. Caratteristica di questa recente strada
(costruita nel 1961, è una delle ultime grandi strade alpine),
oltre allo scenario impareggiabile, è la costanza
dell'inclinazione; la pendenza media del 7.2% viene mantenuta con
puntiglio quasi matematico. Senza nessun tornante, si guadagna
progressivamente quota sul fondovalle che, dopo un temporaneo
restringimento a monte di Färnigen; si apre in un'altra, ancor
piú splendida conca, donde un'evidente mulattiera punta dritta al
valico. La carrozzabile invece lambisce la vallata laterale che scende, in
uno spettacoloso anfiteatro di cime, dal Grosses Spannort; indi si impegna
sotto gli immensi lastroni che ospitano la Sustli Hütte, dai quali
scendono grossi imbuti di neve. Da ultimo, per raggiungere il passo la
strada è costretta a descrivere due tornanti, che la portano a
intersecare tre volte un torrente con altrettanti spettacolari ponti, ben
mimetizzati fra le placche di granito. In cima vi è un breve tunnel,
ma è questione di pochi minuti raggiungere la vecchia mulattiera e
salire per essa al valico vero e proprio. dal quale si finisce di scoprire la
corona di cime che racchiude lo Steingletscher. Il gran piazzale-kermesse
sta di là dal traforo; mi unisco all'attitudine vorace che vi impera
dando fondo all'ultima lucanica, superstite ancora dal Gavia... La
discesa fornisce altri 28 km spettacolari, già al primo tornante
è d'obbligo fermarsi per ammirare la lingua del ghiacciaio di
Stein. Esso è assai meno esteso dei suoi due illustri colleghi, il
ghiacciaio del Rodano e quello di Trift. Dal punto di vista paesaggistico,
tuttavia, grazie alla bellezza e alla dirittura della lingua, e grazie al
suo laghetto proglaciale perfettamente circolare, non teme rivali.
Piú sotto la strada, perfettamente mimetizzata fra la roccia,
passa in galleria sotto una cascata che quasi la minaccia piú sotto.
In seguito si scende per un tratto scavato nella roccia verso la Wendenalp,
sotto l'impressionante bastionata rocciosa Titlis - Reissende Nollen -
Wendenstöcke - Mähren, montagne di prim'ordine anche se per noi
italiani rimangono un po' fuori mano. Sotto Gadmen, comincia ad apparire
l'estrema porzione nordorientale delle Alpi Bernesi, che fa capo allo
Schwarzhorn, ovvero Corno Nero, nella fattispecie poco nero per la
quantità di neve. Esso è separato dal Wetterhorn, tenuto
oggi in ostaggio dalle nuvole, dalla Grosse Scheidegg, valico ciclabile al
quale rinuncio, in quanto mi costringerebbe a una diversione esagerata,
con alta probabilità di vedere la triade
Eiger-Mönch-Jungfrau solo in cartolina.
Ai 622 metri di Innertkirchen il bel capitolo Susten è concluso. Al
cospetto del couloir nord dello Hangendgletscherhorn, primizia per gli
amatori di pareti nord sconosciute, comincia il capitolo Grimsel. Non
siamo ancora a 800 metri, e già l'Aare comincia a essere traversato
da ponti di neve, residui di valanga. Sopra Guttannen, vi sono grandi
cantieri, tra l'altro italiani, per la posa di un oleodotto. Il carattere
selvaggio e difficile della Haslital è cosí descritto da
Hegel nel suo Viaggio nelle Alpi Bernesi: "da Guttannen in poi il cammino
si fa sempre piú selvaggio, desolato, uniforme. Hai sembre
egualmente scabre, tristi rupi su entrambi i lati... Si assiste da presso
alla furia possente delle onde contro le rocce che sporgono... in nessun
luogo si ottiene un concetto cosí puro della necessità
della natura come alla vista della furia perennemente reiterata e
perennemente inane di un'onda che si getta contro tali rocce." Va anche
precisato che oggi gli impianti del Grimsel, succhiandosi gran parte
dell'acqua, rendono il concetto assai meno puro e l'onda meno inane. La
prima centrale la si trova sul ripiano di Handeck, dove supero due ciclisti
uno dei quali traina un carretto a rimorchio. Dopo il ripiano, una impennata
della strada affronta un grosso bernoccolo di roccia, avendone alfine
ragione per mezzo di una ripida galleria che gli Svizzeri saggiamente
sconsigliano ai ciclisti. Del resto il vecchio tracciato, ardito e
panoramico, è stato mantenuto apposta per loro. Quando arrivo,
abbastanza provato, alla diga di Räterichsboden, sono curioso di
vedere che fine abbiano fatto quelli del carretto, ma guardando giú
per la valle non ne vedo traccia. Dopo il tratto lungolago, ecco la rampa
finale, dalla quale si osserva lo sgorbio del nuovo ospizio del Grimsel
gradualmente inabissarsi nelle torbide acque dell'omonimo lago; laddove
il glorioso vecchio ospizio giace quaranta metri sott'acqua. Cosa volesse
dire transitare quassú nel Settecento, lo si capisce leggendo
racconti come quello del pastore protestante Johann Conrad Fäsi, che
nella sua Genaue und vollständige Staats- und Erdbeschreibung
der ganzen Helvetischen Eidgenossenschaft, derselben gemeinen
Herrschaften und zugewandten Orten riporta che "per l'ospizio si
riscuotono tutti gli anni imposte nell'intera confederazione; il
capo-ospizio è tenuto da parte sua ad ospitare gratis tutti i poveri
di passaggio e a tenere in ordine la strada... Al calar della notte deve
ripetutamente chiamare ad alta voce, ad una certa distanza dall'ospizio, e
se qualcuno gli risponde, andargli incontro." Un altro glorioso
edificio che, credo, a quest'ora si sia inabissato nelle acque del Grimsel,
è il ricovero di sassi che nel 1840 il naturalista Agassiz fece
costruire, per le sue ricerche sul moto dei ghiacciai, sulla morena mediana
del Ghiacciaio dell'Unteraar, e che fu scherzosamente battezzato
Hôtel des Neuchâtelois. Sugli ultimi tornanti si mette a
piovere fitto cosicché al passo, presso il livido Totensee, tiro a
diritto, sperando di perdere quota prima che la strada si allaghi
consumandomi tutti i freni. Sei larghi tornanti mi scodellano su Gletsch,
sotto una tettoia del Grand Hotel du Rhône. Dalla Furka arriva una
famigliola, padre e due figli, li vedo entrare al Grand Hotel e poi puntare a
uno dei capannoni, che li abbiano per qualche motivo mandati a dormire col
bue e l'asinello? Invece nel capannone ci lasciano solo le bici, ed eccoli
rientrare pimpanti in albergo. Io invece vorrei salire per scaldarmi e
vorrei rimanere per non bagnarmi. Stavolta trovo piú saggio
differire tutto all'indomani, sospettando che piú in alto non si
trovi piú acqua. Mi inoltro quindi per una breve sterrata nel
Gletscherboden, ovvero l'ampia piana liberata dal ghiacciaio il quale,
ancora nel 1870, giungeva a poche centinaia di metri dall'albergo. Il
luogo, dicono, sia sacro per i fitosociologi, ovvero quelli che
studiano i meccanismi di ripopolamento vegetale; le mie indagini
fitosociologiche si limitano a individuare una piazzola, presso un
neonato affluente del Rodano, tutta cosparsa di Achillea moscata. Quella
che, da noi, per trovarne dieci fiorellini da mettere nella grappa, bisogna
andarla a cercare chissà dove (luoghi segreti, ovviamente).
Piacevole la cena nel profumo dei fiori; quando si accendono cinquecento
metri piú in alto le luci dell'Hotel Rhôneblick, sono
già pronto per il sacco a pelo.
07. Gletsch - Paltano (88 km, 3600 m)
Partenza al buio, mentre la valle dorme, eccezion fatta per gli operai che
già alle sei del mattino lavorano all'allargamento della strada.
Al valico, come già altre volte, guardo curioso la cima che sta a sud,
una specie di bernoccolo che sorge da un piccolo ghiacciaio. Mi chiedo se
esista un modo per aggirare quest'ultimo; in effetti ciò
sembrerebbe fattibile, guadagnando la cresta per un ripido pendio di
sfasciumi, se non fosse che la cresta stessa appare poi perfidamente
sbarrata da un gendarme che sorveglia un aereo colletto, e piú in
alto da lame di roccia rossa. Vedo chiaramente che il gendarme o lo si aggira
da dietro oppure non si passa; cionondimeno, voglio tentare la salita. Con
un lungo traverso mi porto sotto il ghiacciaio; per lingue di neve rossa
guadagno gli sfasciumi; salendo piú spedito di quanto questi
scendano, raggiungo vecchie postazioni di cresta, una dotata ancora di
camino. Di là, fra la nebbia, intravvedo le lingue di neve che
scendono verso la Gerental, qualche bel laghetto qua e là; ogni
tanto occhieggia anche la verde piana dell'Alto Vallese. Prima sorpresa:
l'aggiramento del gendarme esiste ed è elementare. Punto allora
con curiosità alle lame rosse, per aggiungere le quali devo
superare un imprevisto e complicato sistema di cenge e canalini, che per
fortuna non eccedono mai i dorati confini del secondo grado. Nuova
sorpresa, le lame si superano agevolmente in spaccata proprio nel loro
interno. Da sotto l'appicco sommitale sento voci; guardando in su mi si
rivela nella nebbia un numerosa comitiva stretta intorno alla croce. Io mi
interesso al libro di vetta, non foss'altro che per apprenderne il nome,
Gross Mutterhorn, e la quota, 3099 metri. Non male, visto che il decano del
gruppo, il Pizzo Rotondo, arriva a 3192 metri. I colleghi, una compagnia di
Naturfreunde svizzeri, hanno scritto essere saliti dalla Furka come me in
due ore; mi chiedo come abbiamo fatto a non vederci nemmeno. Armati di
piccozze che sembrano degli Alpenstock e di una fune sufficiente a reggere
l'impianto del Sass Pordoi, sono visibilmente contraddetti
dall'apparizione di un figuro dotato di braghette corde, scarponcini
semiseri, zainetto puramente simbolico. D'altronde il bello
dell'alpinismo è anche che ognuno arriva in cima con i suoi metodi;
lí poi, se tutto va bene, ci si trova tutti quanti. Quando ridiscendo
la cresta, i canalini che vi escono dal ghiacciaio sono popolati da altre
comitive di zelanti picconatori.
Mentre al passo riavvio il mezzo, vedo arrivare i Naturfreunde, e
finalmente capisco che sono passati sul versante Uri. La discesa propone
dovizia di buche; si superano i gloriosi alberghi Tiefenbach e
Galenstock e poi ci si tuffa con svelti tornanti su Realp: un tratto che mi
ricorda molto il Col de Vars sopra Mélézen. La mia
attenzione è captata dalla vallata che scende dal Pizzo Lucendro,
la quale sembra avere notevoli pregi scialpinistici. A Realp mi rifocillo,
indi proseguo contro un vento fortissimo per il caratteristico tratto
diritto e pianeggiante che punta su Andermatt. Benché siano
previsti onori e diplomi per chi completa il girotondo del Damma, io trovo
piú estetico lasciare l'anello incompiuto, e a Hospental inizio la
salita del Gottardo, senza diploma e cosa piú importante senza
vento. Uniche note salienti, nella bassa valle, i bei casolari di
Mätteli, a quota 1800, davanti a una grossa canna di cemento,
probabilmente una presa d'aria del traforo. Dopo una stretta si entra
nell'alta valle. Mentre dalla strada nasce l'autostrada che prende quota
regolarmente, i ciclisti vengono mandati a spasso per l'Alpe Rodont sul
vecchio tracciato di pavè rosso, che si riserva di guadagnare il
passo solo da ultimo, con una severa impennata. Poco oltre lo spartiacque,
ecco il lago, l'ospizio il museo. Un drappello di militari viene istruito da
un ufficiale in lingua francese; sullo storico confine tra il mondo
germanico e quello italiano, tra i due litiganti il terzo gode.
Tutt'intorno esercitazioni di spari, chioschi di salsicce, suonatori di
fisarmonica, forzati dell'abbronzatura, cultori del caffè e del
gelato. Comincio l'opera di perdere mille metri di dislivello sul
pavè della strada della Tremola, in stato peraltro eccellente. In
corrispondenza di una successione di tornanti cosí stretta che
tutto il fianco della montagna sembra pavimentato, supero il cocchio della
posta, o meglio la rievocazione, con tanto di carro decorato e sonagli, di
quella che era la posta Andermatt-Airolo. Piú sotto il tracciato ha
un gran lavoro ad evitare l'autostrada, che le si fa incontro piú
volte, dopo aver descritto la spettacolare curva volante che domina tutta
la bassa Val Bedretto. Ed è questa la valle che mi metto a risalire
dopo una breve merenda ad Airolo. Passati i paesi di Fontana ed Ossasco, il
sole cocente delle vie di Airolo si è ormai tramutato in presagio di
temporale; alla testata della valle sono accampati spaventosi nuvoloni;
con meravigliosa sincronia seguono l'impennarsi della strada e l'inizio
di un diluvio. Quando raggiungo una baracca di legno con un tettuccio,
è ormai tardi. Mentre mi asciugo e mi cambio, estraggo le fotocopie
della guida CAS e ripasso le notizie sui sentieri per il Passo San Giacomo.
Questo valico sta alla testata della Valle del Toce, l'unica che io conosca,
oltre a quella dell'Avisio, a cambiare tre nomi. Se infatti in alto si chiama
Val Formazza, nel tratto mediano si chiama Valle Antigorio, prima di
diventare Val d'Ossola. Detto per inciso, lo stesso vecchio nome Walser del
Passo, ovvero Faldösch, deriva da un celtico oskilo,
che sta per per frassino, Esche: ed Eschental è la Val d'Ossola. Il
nome attuale deriva da una cappella, prossima al passo, che credevo andasse
raggiunta bici in spalla dall'ospizio di All'Acqua, 1614 metri. A
sorpresa, la fotocopia che evidentemente a casa non avevo letto con
attenzione rivela l'esistenza di un altro sentiero che si diparte dalla
località Paltano, a 1877 metri, un evidente guadagno. Divento
improvvisamente curioso di raggiungere Paltano; mentre il temporale
è agli sgoccioli, mi impegno sull'ultimo strappo prima
dell'ospizio, ripido quanto serve per godermi con calma un
indimenticabile controluce: proprio come scriveva Hölderlin,
schroff durch Tannen herab glänzet und schwindet ein Strahl.
Trecento metri piú in alto, di là dal fiume, ecco Paltano,
una baita isolata presso uno stagno; decido di piantarvi la tenda per salire
stasera senza carico al Passo di Novena, e domattina tentare il sentiero del
San Giacomo. Le poche decine di metri che mi separano dall'altro lato della
valle sono quanto mai penose: le ruote si vogliono inabissare nel terreno
fangoso e devo ripiegare fra i rododendri, tra i rospi che saltellano. Poi mi
avvio verso il Nufenen, scoprendo che la salita è dura anche senza
bagaglio, e anche che si vuol rimettere a piovere. Un poco indispettito da
queste circostanze, non mi godo adeguatamente la magia del paesaggio
serale, impreziosito dalla luce obliqua che viene dal Vallese, dove
già il cielo si sta rasserenando, mentre sopra il rifugio Corno
Gries vige ancora del colore della pece. Fra livide chiazze di neve, la
strada raggiunge il passo. Nella fase finale è affiancata da due
grosse linee elettriche, che però poi puntano verso il valico
geografico, 40 metri piú basso. Quello stradale, 2478 metri,
è caratterizzato da un laghetto di profondità irrisoria,
ma comunque pittoresco, come pittoresche sono le pozzanghere nelle quali
si riflettono le nubi infuocate che si stanno sfilacciando sopra le Alpi
Bernesi. Nonostante siano le nove di sera e nonostante un freddo inusuale,
mi fermo per vedere se uscisse una buona volta dalle nuvole il
Finsteraarhorn. Fu su quella vetta, tra foto con il cioccolato Novi ed
osservazioni scientifiche (ci si trova a 4271 metri, e l'Aletschhorn, 4195
metri, nasconde i Piloni del Freney del Bianco, 4500 metri), mi venne l'idea
di questo giro. Se il panorama verso ovest, infatti, vede allineati i noti
profili di tutti i grandi colossi alpini, quello verso est propone un dedalo
inestricabile di basse montagne e di vallate; la visione di quel mare
increspato mi mise la curiosità di un giro per la Svizzera centrale.
I personaggi in scena in tarda ora al Passo di Novena sono i seguenti. Io che
tento di lavare i cerchioni dal fango di Paltano, del quale sia con l'acqua
del lago sia con qualche pugno di neve dura fatico ad avere ragione. Quelli
del ristorante stanno chiudendo le imposte dopo aver sbarrato la porta.
Davanti alla quale un padre con una ragazzina, sua figlia, battono i denti e
saltellano per scaldarsi; mi spiegano che tornando da Guttannen verso
Bergamo hanno rotto la cinghia due tornanti sotto il passo; hanno chiamato
in soccorso che son tre ore un cugino di Bellinzona e lo stanno, appunto,
ancora aspettando. Io assicuro che in caso di bisogno sono disposto a
scendere ad Airolo, per chiamare soccorsi, ma alla fine optano per sperare
ad oltranza nel cugino, e si avviano mestamente verso l'automobile e forse
verso una brutta notte all'addiaccio. Scendendo lentamente, ho il tempo di
constatare come la testata della Val Bedretto non sia affatto deserta, in
mezzo ai campi si sono accese varie luci di baite e di roulottes di pastori.
08. Paltano - Viggiona (130 km, 700 m)
Verso le dieci, non appena smette di piovere, smonto la tenda, ordino i
bagagli e mi avvio su per un percorso fangoso tracciato da alcune ruspe che
stazionano poco sopra; non stanno comunque, come m'ero illuso, lavorando
alla strada per il San Giacomo. Alternerò cinquanta metri con il
bagaglio (due zaini, uno davanti e uno dietro, e due borse per ciascuna mano)
e cinquanta con la bici. Basta sentire la descrizione per capire che dopo il
primo turno sento la schiena distrutta e batto in ritirata. A vedermi
scendere ridicolarmente bardato è una colonna di mezzi militari
diretta al passo; mi chiedo per un momento se gli svizzeri avranno l'usanza
di sparare sui contrabbandieri. Volto come da copione il guardo al varcato
Ticino, per dare un saluto a Paltano e alle mie folli idee, comincio la
discesa della Val Leventina, il modo piú ovvio per entrare in
Italia. Passato All'Acqua, passato il baracchino salvifico, devio per i
graziosissimi paesini di Ronco, Bedretto e Villa. Breve ristoro ad Airolo,
stessa Coop e stessa panchina di ieri pomeriggio. La discesa della valle
propone aria fresca fino a Piotta, dove si vede salire la funicolare del
Ritom; scesa la gola del Piottino comincia l'afa di fondovalle. Il sole
picchia, solo le alte cime che circondano la valle sono tenute in ostaggio
dalle nuvole. A Osogna vedo una serie di montagne russe presso la strada;
guardo l'insegna, non si tratta di un gioco, bensí della scuola
anti-sbandamento di Osogna. A Castione devio verso il San Bernardino,
ma solo per raggiungere il paese di Lumino in cerca del mio amico Michea
Simona, col quale condividevo lo studio in Normale. La ricerca è
resa piú interessante dal fatto che non so l'indirizzo, e che in
strada, per via dell'afa, non c'è anima viva. Saranno tutti in casa a
preparare le pazzie della sera, per la festa del patrono San Mamette.
È in attività il macellaio; lo interpello nella speranza
che a casa di Michea non siano vegetariani, e apprendo che il nostro abita a
Castione. Poco male, perché la stradina pedemontana che unisce i
due paesi, immersa tra vigne e frutteti, è una vera delizia.
Trovando la casa di Michea deserta, non mi resta che traversare la piana di
Magadino e puntare verso Locarno. Improvvisamente sento un soffio di aria
fresca, alzo gli occhi dalla strada e constato di essere davanti al lago.
Tutt'intorno ancora vigneti, frutteti; le ville salgono altissime sul
fianco della montagna; pensare che fino a Castione si vedevano solo prati
incolti. Aggiro la bella vita del centro di Locarno seguendo una serie di
stradoni che sarebbero piú appropriati per una metropoli
americana; dopo il fiume Màggia, dove mi aspettavo di trovare
Ascona, trovo invece un tunnel che me la fa saltare a pié pari. Non sto
a tornare indietro, attratto ormai dal richiamo del Bel Paese; passata la
dogana di Madonna di Ponte si comincia puntualmente a vedere qualche
cartaccia in piú, ma in compenso ci sono splendide ville e giardini,
appesi alle rocce sul lago, e accessibili solo per strette scalinate, roba
che di là neppure si sognano. Appare Cannobio, ospitato da un
provvisorio slargo fra i monti, in corrispondenza dello sbocco
dell'omonima valle. Compro del lubrificante perché il cigolio
degli ingranaggi comincia a toccare i livelli di sopportazione. Chiedo ai
ciclomani notizie sulla salita per Tràrego e Viggiona, ma vedendo
com'è carica la bici scuotono il capo. Parliamo del percorso che ho
fatto, ma essi rimangono abbastanza tiepidi, finché non sentono
del Gavia: questo li fa diventare improvvisamente euforici e, come effetto
collaterale, ho la benedizione di salire a Tràrego.
Questa magnifica strada panoramica inizia poco piú avanti, a
Cànnero Riviera, di fronte a tre isolotti detti Borromei, come le
loro piú note sorelle giú dalle parti di Stresa. Carta alla
mano, i primi sei km di salita sono al dieci per cento di media. Tuttavia, fra
ville, giardini, palme, con il panorama su Luino dalla parte opposta del
lago, la quiete di una sera dolcissima, eccetera, non ho tempo di percepire
alcuna fatica. Di tanto in tanto riappaiono fugacemente gli isolotti, di
tornante in tornante piú minuscoli; segue il primo paese,
Viggiona.
Quando con Gabriele torniamo dalle scialpinistiche in Svizzera, reduci da
panini, pasta di fornello e minestre Knorr, è di prammatica
salutare il ritorno in patria con una mangiata di spaghetti che, cotti in un
bel pentolone e a bassa quota, sono un'altra cosa. Stasera farò lo
stesso; i turisti del luogo mi consigliano il Circolo dei Martiri
Viggionesi, un posto alla buona, si capisce, ma l'abbondanza della cuoca e
la voracità con la quale i turisti tedeschi, che monopolizzano le
splendide ville della zona, stanno reclinati sul piatto fanno ben sperare.
Dopo aver prosciugato primo secondo contorno dolce vino amaro, dopo aver
telefonato a Pier Marco che sarò a Viú tra due giorni, mi
metto a chiacchierare con il padrone e apprendo che poco sotto una cappella
della Madonna dotata di un porticato farebbe al caso mio. Meglio mettersi al
riparo, mi spiega, perché stanotte le previsioni annunciano
violenti temporali.
Monto la tenda piú per abitudine che non in ossequio alle
previsioni. A mezzanotte si solleva un primo temporale, un fulmine casca a
poche decine di metri e lo spostamento d'aria mi solleva la tenda fin sotto il
sedere. Alle due ecco un altro temporale, cui ne segue a ruota un terzo. Alle
quattro sembra caschi il mondo, straventa in modo tale che il porticato e
perfino la tenda sono allagati. Aspetto che si calmi un poco la situazione
per smontarla, ma d'improvviso tuoni e lampi cedono il posto a vento
fortissimo che arriva come una compatta muraglia; devo stare mezz'ora
appeso ai teli della tenda, per impedire che si strappino, prima che un breve
cedimento del vento mi permetta, con mossa repentina, di smontare il tutto.
Apprenderò in seguito che non era un temporale locale, ma un
cataclisma che aveva spazzato tutto l'arco alpino, provocando anche
diversi morti.
09. Viggiona - Trivero (130 km, 3150 m)
Alle otto passa il compare a vedere se ho dormito bene; io mi rifiuto di
uscire, tutto il bosco è ancora proteso verso di me, non sarà
la foresta di Birnam, meglio però aspettare. Quando mi metto in
moto, dietro Luino il cielo ha ancora un brutto colore metallico, ma dalla
pianura sta entrando bonariamente il sereno. Il panorama che la strada,
salendo fra sorbi e betulle, offre sul blu intenso del Lago Maggiore,
è di quelli che non si dimenticano. Dopo una fitta abetaia il
percorso raggiunge un primo culmine a 1220 metri; il vicino Monte Cazza
è il belvedere ideale sulla porzione settentrionale del lago. La
strada perde in seguito cento metri di quota, poi risale fra alpeggi abitati
fino oltre i 1300; quello che sulla carta Touring è segnato come Il
Colle m. 1238 è in realtà una depressione, in quanto la
strada piú avanti riguadagna i 1300 metri. Al Colle un signore sta
ripulendo il suo giardino sconvolto dagli eventi della nottata;
chiacchierando si viene a parlare del vicino Passo Folungo, nome che mi si
associa a quello del Monte Zeda (2151 metri), la cima di quel gruppo di
Prealpi che fa bella mostra di sé mentre si costeggia in autostrada
il Lago Maggiore in direzione Sempione. Piú d'una volta in
primavera vedendo quel lenzuolo bianco spuntare dalle colline antistanti
mi ero ripromesso di arrivarci; oggi è l'occasione buona. Inverto
la marcia, e raggiungo la sterrata che comincia con l'attraversare in piano
un primo costone, tra felci e bassi arbusti che non interferiscono con il
grandioso panorama. Il fondo stradale abbonda di luccicanti scaglie di
mica, molto amanti dell'olio di Cannobio, cosicché in poco tempo mi
ritrovo una catena perfettamente scintillante e gracidante. Superata una
prima cresta del monte Spalàvera, la strada entra nel bosco e punta
verso nord. Quando viene a sfiorare un'altra cresta, piega decisamente
verso ovest; solo dopo il lungo traverso sotto cresta scollina sul lato
della Val Cannobina. Sopra una cresta secondaria che scende verso
quest'ultima valle, sorge l'agritur Alpe Archia. In seguito la strada
rinviene verso lo spartiacque principale e con ultima debole salita
guadagna Passo Folungo, 1359 metri. Nel suo complesso il percorso sembra
disegnato apposta per dividere equamente il panorama fra i quattro punti
cardinali.
Dal passo una mulattiera militare comincia a rimontare il fianco del monte
Vadà; due ciclisti avventurosi vi sono impegnati. Io lascio la bici
al passo, e prendo il sentiero che segue il filo di cresta, per tornare alla
mulattiera nel punto in cui una serie di tornanti termina lasciando spazio a
un lungo traverso a mezza costa. Il versante è ideale per il pascolo;
un pastore sta scacciando verso il basso le sue pecore testarde servendosi
del frastuono di una moto che fa impennare in mezzo ai prati. Superata la
cresta sud del Vadà, il traverso continua, dominando ripidi pendii
sono punteggiati di alpeggi, non tutti diroccati, con magnifici tetti
luccicanti di ardesia. Si arriva da ultimo alla selletta 1850 metri sotto
l'impennata finale dello Zeda. Prima di infilarmi nel cappuccio di nebbia
della cima, arrivo a scoprire anche sul versante cannobino una miriade di
alpeggi, che salgono dal fondovalle fino a poche centinaia di metri da me. La
curiosità di scoprire se il cappuccio di nebbia avvolge anche la
cima mi spinge a salire celermente; in poco piú di un quarto d'ora
supero i 300 metri di dislivello che mi separavano dalla cima. Nel complesso
ho impiegato un'ora e dieci dal Folungo. La nebbia comunque tiene
saldamente la vetta, mi perdo il Monte Rosa e chissà quant'altro, ma
sono già contento per il fatto di non essermi lasciato sfuggire
questa splendida deviazione.
All'Alpe Archia ho già perso il conto delle creste e dei versanti, e
sto per imboccare una pista forestale che scenderebbe in val Cannobina. Per
fortuna torno e chiedo, e grazie a questo riguadagno senza intoppi il Colle.
Per scendere verso Verbania, come già detto, si comincia con una
risalita; poco dopo il punto piú alto, appare un grosso ospedale, il
Centro Auxologico di Piancavallo. Con suggestivi passaggi sul filo della
cresta, la strada scende ripidamente ad una forcella, 800 metri, nella
quale si nascondono le poche case di Manegra. Segue una risalita ai 935 metri
del Piano di Sole, posto ideale per uno spuntino e per l'indispensabile
asciugamento della tenda. Ampi tornanti scendono verso Verbania;
purtroppo l'edilizia non è piú quella di Tràrego e
Viggiona; cemento ed alluminio neutralizzano efficacemente la
suggestione del panorama. Dopo un breve tratto lungo il lago, mi trovo sotto
le cave di marmo del Monte Òrfano, indi a Gravellona. Salendo verso
Omegna incontro Casale Corte Cerro, era dalla Rocca di Capri Leone, costa
settentrionale sicula, che non incontravo un posto con tre nomi; qui
c'è anche il beneficio dell'allitterazione. Decisamente
balneare l'atmosfera lungo il lago d'Orta: le cittadine e la strada sono
deserte, tutti quanti sono a mollo oppure in barca. Supero San Giulio,
l'isola del barone Lamberto, quello che c'era due volte, ed aveva
ventiquattro mali che solo il suo maggiordomo riusciva a tenere a mente. Del
resto il suo ideatore Gianni Rodari era di Omegna. Fortuite le omonimie
letterarie invece per il paese di Gozzano, sulla collina morenica che
chiude il lago a sud. Da lí comincia la salita alla Cremosina, 599
metri, un passaggio verso la Valsesia che con fantasia si può
chiamare valico. Dapprima la strada vaga per la morena; improvvisamente si
impenna per raggiungere il ripiano di Pogno; indi di addentra tortuosa per
una stretta valle che sembra sempre finire di lí a cento metri,
poiché le sue bizzose volute sono ben nascoste dalla vegetazione.
Quando la valle finisce per davvero davanti ad un'osteria, ci pensa un breve
tunnel a risolvere la situazione. Inizia poi la discesa su Borgosesia, il
tratto certo meno bello del percorso: tristi paesoni, cresciuti alla
rinfusa, in una zona che già di per sè non ha grandi
attrattive paesaggistiche. Dopo Borgosesia, nella bassa valle del
Sèssera, ho avuto un po' di problemi di orientamento nel
raggiungere Trivero, dove inizia la Panoramica Zegna. Le indicazioni sono
abbastanza lacunose; consiglio di tenere la sinistra idrografica, di
fidarsi dell'intuizione e soprattutto di non chiedere informazioni alla
gente del luogo, che mi ha mandato verso paesi dai nomi sí
pittoreschi, tipo Guardabosone oppure Ailoche, ma invero poco attinenti
al mio itinerario. Quando finalmente la strada abbandona il triste
fondovalle per puntare verso Trivero mi sembra una liberazione. È
quasi buio, e anche piú in alto devo constatare che non c'è
traccia né d'un prato né d'una fontana. Anche se un cartello
turistico segnala l'esistenza di una decina di meritevoli monumenti nel
solo paese di Portula, io non incontro altro che immensi piazzali asfaltati
prospicenti ad altrettanto immensi lanifici. Verso la fine di Trivero non
so quale intuizione mi sospinge verso un nucleo di case vecchie, dove mi
appare una fontana. Quando mi avvento verso l'acqua con borraccia e
bottiglie, mi si fanno incontro due donne per segnalarmi che, anche se il
cartello che hanno attaccato non si legge per il buio, ciò non toglie
che l'acqua sia tutta infangata. L'acquedotto è stato danneggiato
dal temporale della notte, e in paese s'è usata acqua Ferrarelle
anche per cuocere la pasta. Gentilmente mi offrono acqua Ferrarelle e un
garage dove stendere il mio sacco a pelo; io spiego però che sarei
felicissimo se mi indicassero un prato. Dopo un lungo consulto pervengono
alla conclusione che esiste un prato in località Caulera, 400 metri
piú in alto. Ci fermiamo ancora un poco a parlare della notte
passata, e a guardare le luci della Bassa che tremolano nell'afa presaga di
nuove sventure, indi mi congedo. Il proposito di raggiungere il rarissimo
esemplare di prato è subito abbandonato dopo che ho due-tre saggi
sulla guida notturna della gente del luogo. Trovo un posto orrendo nel bosco
pur di togliermi dalla strada.
10. Trivero - Germagnano (155 km, 2000 m)
Causa la posizione precaria della tenda, al mattino mi ritrovo nuovamente
allagato. La partenza è una liberazione, ma attacca di nuovo una
pioggia che sembra voler durare tutto il giorno; il cielo sopra la pianura
non sembra lasciare dubbi. Mentre seduto sotto un poggiolo studio come
concludere in maniera decorosa il giro, vedo passare molte macchine; lo
stesso garage contro il quale sono appoggiato mi si apre nel sedere. Da
tutto ciò deduco che ci sia una messa al vicino convento; questa
sarà la mia occupazione per la prossima ora. Il cielo, mostrando
somma benevolenza verso il prete che se ne va imprecante perché gli
hanno parcheggiato una macchina dietro, smette in breve di piovere.
Finalmente attacco la Panoramica Zegna, fra due ali di ortensie blu;
all'inizio, un cartello spiega come fosse il signor Ermenegildo Zegna,
industriale della lana nonché filantropo, a volere questa strada
somigliante a un giardino; poco piú avanti fra le ortensie
c'è anche la sua tomba. Piú in alto trovo Caulera,
costituita da tre orrendi condomini che ci si chiede cosa facciano a 1200
metri. Poco dopo segue una bellissima fontana con annesso pratino
attrezzato come area pic-nic. Con un poco di ritardo, potrò lavarmi
e cucinare quella che avrebbe dovuto essere la cena di ieri. Mentre bolle
l'acqua, sono agganciato da uno sportivo, salito di corsa sotto la pioggia
da Borgosesia a Bielmonte, 40 km, ora sta già scendendo. Capisco
subito di trovarmi di fronte ad una persona atipica per il luogo, e infatti
è originario di Aosta; parlando scopriamo di avere in comune, oltre
all'avversione per i Biellesi, una certa propensione per le soluzioni
complicate (lui va ad Aosta in bici passando per il Col d'Olen) e un
disassamento della rotula destra, che lui a differenza del mio caso si
è fatto operare, con risultati eccellenti a quanto pare. Poi ognuno
riparte per la sua strada, la mia nella fattispecie porta nel bel mezzo della
nebbia. Raggiunto un primo culmine a 1400 metri, si scende di cento, indi si
risale al valico di Bielmonte, 1517 metri, prima di scendere alla Bocchetta
di Sèssera, 1382, dove si dirama una sterrata che scende nell'alta
Val Sessera; alcune carte riportano un progetto di collegamento con l'alta
Valsesia. Durante tutto il percorso ho la sensazione che ci dovrebbe essere
un bel panorama. Questi sono anche i luoghi dove morirono di stenti Fra'
Dolcino ed i suoi seguaci; onde nel canto XXVIII dell'Inferno Maometto, che
pure era alle prese con altri problemi, gli manda a dire per scherno di
provvedersi meglio di viveri, un'altra volta:
Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi, /
tu che forse vedra' il sole in breve, /
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi, /
sí di vivanda, che stretta di neve /
non rechi la vittoria al Noarese, /
ch'altrimenti acquistar non saría leve.
Una tranquilla discesa porta sotto l'abitato di Rosazza, dove a 780
metri si traversa il torrente Cervo, impetuoso ed azzurrissimo nella
diapositiva che raffigura l'inedito asciugamento della tenda: legata
alla spallina del ponte, gonfiata dal forte vento, sembra una vela sopra
l'acqua. Sulla salita per la Colma, trovo l'immenso santuario di San
Giovanni Battista, di poco oltre i mille metri. Piú in alto la
strada, sempre affiancata da edicole sacre, sfiora le cave di sienite,
dominate da immense gru. L'ambiente ricorda molto le Alpi Apuane.
L'asfalto cessa verso i 1250 metri e mi trovo, avvolto nella nebbia, a
lottare con uno sterrato da subito infame; anche i fuoristrada che incontro
faticano a scendere. Ad un certo punto emerge dalle nebbie una fantasiosa
architettura neogotica; appuro che non è un miraggio, anzi, poco
dietro si apre la galleria Benedetto Rosazza: anche la Colma infatti, come
il Susten e il Galibier vecchia versione, ha un tunnel alla sommità.
Siccome ho letto che un industriale di Rosazza eresse strane architetture
nel suo paese, ho formulato provvisoriamente la seguente teoria: c'era una
volta a Rosazza l'industriale Benedetto Rosazza, proprietario di cave;
visto che le cave arrivavano quasi in cima alla montagna, fece anche scavare
un tunnel per andare ad Oropa; gli diede il suo nome, e all'ingresso eresse
questo strano edificio che sembra allo stesso tempo un palazzo, una chiesa,
un castello. Entro al bar che sta al piano terra. La fama che uno stava salendo
in bici da Rosazza mi ha preceduto; come dice Virgilio, magnas it fama per
vias; se la concorrenza è impegnata su strade siffatte, le
diventa facile accumulare vantaggio. Il fatto interessante è che
alla parete pende un poster del Rifugio Crucolo. Una breve inchiesta
stabilisce che: il proprietario è sardo; due avventori in uniforme
sono della Forestale di Biella, salvo essere l'uno di Piné e l'altro
di Bieno. Il ruolo del Crucolo è il seguente: i forestali biellesi
hanno convinto il figlio del proprietario a venire in Valsugana per
apprendere teoria e prassi del parampampolo. Io rendo conto delle
peregrinazioni passate e delle poche future; dopo brevi scene alla maniera
di Dante e Sordello, subito gli interlocutori si preoccupano del mio
futuro. Sono infatti convinti che uno che pensi di arrivare in serata a
Viú non possa essere tanto a posto; essendo il Canavese fuori dalla
loro giurisdizione, ne parlano come di una terra invero remota. Visto che io
non mi schiodo di testa questo Viú, si mettono a discutere
sull'itinerario migliore per arrivarci. Mentre io vengo zittito con una
sequenza di birre, si formano due partiti, quello del Tracciolino e quello
della Bassa. Il Tracciolino è una pista fra i boschi, in parte
sterrata, che congiunge in quota Oropa con la Serra di Ivrea; era quello che
avevo in mente io. Passare largo per la pianura, arrivando addirittura a
Chivasso, mi sembra a prima vista cervellotico. A sorpresa però
vince il partito della Bassa - e vince, constaterò, a ragione.
Appena comunicata la delibera, vengo esortato a partire causa l'ora tarda.
Dopo una foto di gruppo, eccomi imboccare la galleria, il cui
attraversamento è emozionante quanto sulle Apuane il Cipollaio
senza fanale. Assai meno buia del Cipollaio, la luce che vi filtra fa
rilucere placche levigatissime di roccia, dando una tale impressione di
viscidezza che ci si chiede come faccia la bici a stare in piedi. Emozionante
è tornare alla luce al cospetto della cupola del Santuario di Oropa,
tanto grande che si fatica a credere che stia quattrocento metri sotto. La
costruzione del Santuario fu iniziata nel Seicento, per un voto dei
Biellesi contro la peste, eppure la chiesa superiore, quella col cupolone,
fu ultimata solo nel 1960. Per gli appassionati di ciclismo il luogo evoca
arrivi in salita, eppure non sono l'unico a piombarci dall'alto. Gli
abitanti del paesino di Fontainemore, in val di Gressoney, ogni anno vi
giungono in processione, camminando tutta una notte per traversare il
Colle di Barma, 2261 metri. Visito il santuario in grande fretta, conscio
che qui bisogna tornarci in tutta calma per visitare la schiera di cappelle
del Sacro Monte (e la tomba di Quintino Sella, fondatore del CAI). La folla
vociante che anima i prati circostanti ammonterà a diverse
migliaia di persone. Durante la calata verso Biella, la transizione dal
fresco all'afa della pianura si completa sorprendentemente in pochi metri
di strada. Per le strade di Biella gireranno tre persone; senza badare a
rosso verde destra sinistra posso uscirne con inusitata celerità;
forse solo l'anno scorso, durante la semifinale dei Mondiali con la
Francia, incontrai strade altrettanto deserte.
Inneggiando all'intuizione geografica dei Biellesi, trascorro
rapidamente per campagne e città fantasma, di nome Salussola,
Cavaglià, Àlice Castello, Borgo d'Ale, Cigliano. Un
improvviso tornante scuote la monotonia della strada:
si scende al ponte sulla Dora abbandonando le
estreme propaggini della Serra di Ivrea, a custodia della quale sta una
prostituta nera come la pece, dall'aria alquanto simpatica. A
Chivasso idealmente il giro finisce, in quanto qui mi riallaccio al
percorso dell'anno precedente; mi restano probabilmente solo quaranta km
per Lanzo, perché immagino che Pier Marco, secondo un copione
sperimentato, mi verrà a recuperare all'imbocco della valle,
conditio sine qua non per far quadrare gli orari della cena. Infatti,
all'imbocco della valle di Viú, mentre spengo il fanale come faccio
sempre in salita, si accendono dei fari al lato della strada: la staffetta
è pronta, il giro davvero finito.
11. Rocciamelone m. 3538
Il Rocciamelone, fra le cime delle Alpi, è una delle piú
ricche di storia e leggende. Niente a che vedere con lo strano nome,
probabilmente un'endiadi che unisce la nostra roccia con il termine
celtico mello che vuol dire pure esso roccia (e immagino
avrà a che fare anche con la Val di Mello). Il fatto è
piuttosto che, nel Medioevo, esso era ritenuto il monte piú alto
d'Italia, grazie alla sua visibilità dalla pianura, e forse ancor
piú grazie al dislivello di tremila metri col quale incombe su Susa.
A proposito di dislivello, una guida alpina Valerio Bertoglio,
quattro-cinque anni fa, fece in giornata tre volte andata e ritorno
Susa-Rocciamelone, 18000 metri tra su e giú. Nel Medioevo invece
nessuno si era preso la briga di salire in cima, e constatare che si ha davanti
al naso lo Charbonnel duecento metri piú alto. Alla leggenda del
Rocciamelone contribuisce il fatto che ai suoi piedi c' è la strada
del Moncenisio, e lungo la strada l'abbazia di Novalesa. Nel Chronicon
Novaliciense, secolo XI (lo ricordate a letteratura, insieme al
Cantico delle Scolte Modenesi e a Salimbene de Adam da Parma...) si narra di
un certo conte Romulo che, malato di lebbra, era solito trascorrere le
estati in un imprecisato luogo presso la cima del monte, in suo onore detto
Romuleo. Inutile dire che ci lasciò anche un tesoro, che non
è stato mai ritrovato. Si è invece trovato sulla vetta il
pesante trittico di bronzo portatovi da Bonifacio Rotario, nobile d'Asti,
nel 1358. Costui, mentre si trovava in Oriente, aveva fatto voto di portare
un'immagine sacra sulla cima piú alta delle Alpi, se solo si fosse
salvato dai musulmani. Il trittico oggi è al Museo di Susa, e ogni 4
agosto viene riportato in vetta con solenne processione; il 5 c'è
festa in cima. Ben piú pesante del trittico, la statua della Madonna
alta tre metri fu portata in cima nell'agosto 1899 dagli Alpini, oltre un
mese di lavoro. La festa del 5 agosto 1999 incorporava anche il centenario
della statua: oltre duemila persone raccolte intorno alla vetta,
illuminata per tutto il mese da due riflettori posti sulla cresta sud. Io e
Pier Marco, tra le Madonne del 5 e del 15 agosto, scegliamo il 10
perché vogliamo scendere in Francia, a Bessans, ritornando
l'indomani, in modo da sincronizzarci con l'eclissi in alta quota.
Partiamo dalla diga di Malciaussia, alla testata della valle, in un'alba
dalla luminosità surreale. Ancor prima delle otto, ora inusuale
per i temporali, un nubifragio formatosi sulla cresta di confine ci
infradicia prima che arriviamo al rifugio Tazzetti, dove il gestore scruta
per noi le nuvole che turbinano attorno alla vetta. A un certo punto
giudichiamo che un vento tanto freddo non può che portare il bello, e
infatti la salita al Passo della Rossa avviene sotto il sole. Resistendo
fortunatamente alla tentazione di scorciare per insidiosi nevai,
arriviamo per il facile sentiero a mettere piedi sul ghiacciaio, o meglio su
quel poco che rimane del ghiacciaio: Pier Marco che è pratico del
luogo fatica a riconoscerlo. Il sentiero fa la spola fra ghiaccio e morena,
questo non è male perché, viste le nuvole che si fanno avanti
dalla Vanoise, è meglio procedere come Pollicino con tanti ometti.
Il percorso finale lungo la cresta nord-ovest è impareggiabile per
la grandiosità del panorama. C'è anche l'effetto speciale
di qualche banco di nebbia che si forma dal nulla, e nel nulla scompare
altrettanto improvvisamente. In cima non beneficiamo di tutte le
potenzialità del panorama, perché le grandi cime verso
nord sono coperte, ma questo è forse solo un bene, perché
possiamo concentrarci meglio (il resto si lascia per la prossima volta)
sulla veduta aerea del lago Malciaussia, della valle di Viú, della
larga valle di Susa custodita al suo imbocco dalla sagoma inconfondibile
della Sacra di San Michele. Sul versante opposto, ecco la cresta
dell'Orsiera, il colle delle Finestre, la sterrata dell'Assietta: mi
rivedo lí a pedalare al cospetto del Monviso, del Rocciamelone,
della Barre des Ecrins. Anche sul Rocciamelone ci si potrebbe quasi
arrivare in bici se fosse vero quello che sosteneva il gestore del Tazzetti,
e cioè che è stato costruito su un dosso poco a nord della
cresta da noi percorsa un nuovo rifugio cui darebbe accesso una sterrata dal
Moncenisio. La verifica però è rinviata ad altra data, in
quanto la manifesta inaffidabilità del tempo ci suggerisce di
rinunciare alla traversata verso Bessans.
L'indomani ci pentiamo di questa decisione, in quanto l'eclissi arriva a
cielo praticamente sereno; invece che essere in giro per gli altri
ghiacciai, ci accontentiamo dei mille metri dei Tornetti di Viú.
Durante i fatidici due minuti troviamo anche il tempo di guardare verso il
Rocciamelone per convincerci che - cosa patentemente falsa - se fossimo
lassú avremmo cielo coperto. Il pomeriggio stesso saliamo in bici a
Malciaussia: il tratto finale, oltre il paese di Margone, è
notevole per la fantasia con la quale la stretta strada si trova un percorso
fra le rocce montonate, inerpicandosi da ultimo su una ripido fianco
roccioso, con vedute notevoli sulle grangie del fondovalle
sottostante. La pioggia quotidiana è particolarmente mite. Dal
lago rivediamo i tornanti di un sentiero, che avevamo adocchiato
già il giorno precedente, e che sale al Monte Lera, panoramico
scoglio che domina il tratto di valle tra Lèmie e Usseglio.
12. Monte Lera m. 3355
Il giorno dopo siamo in moto verso la Lera. Il sentiero che, visto dal basso,
sembrava salire a gran velocità, è invece una macchinosa
mulattiera militare di lunghezza infinita. Ci vogliono due ore per
raggiungere il pianoro a 2600 metri, dove il tracciato militare piega verso
il Colle dell'Autaret e la Francia, e una traccia poco definita sale in
direzione della vetta per un vallone a ripiani, uno dei quali ospita un lago e
grossi nevai. Verso i tremila metri si annuncia burrasca. Bessi è
terrorizzata; Pier Marco si ferma con lei sotto una roccia mentre io decido
di cercare la via della vetta nella nebbia delle pietraie sommitali.
L'evoluzione del tempo mette le ali ai piedi; arrivo a un risalto quasi
verticale che porta alla cresta sommitale quando inizia a nevischiare.
Ormai però decido di proseguire; mentre sto arrampicando sul filo
di cresta ormai viscido cominciano lampi e tuoni; un unico estemporaneo
squarcio mi lascia vedere il bel ripiano del lago di Peira Ciaval. La statua
della Madonna che occupa la vetta emette un ronzio piuttosto eloquente:
arrivo a una rispettosa distanza di qualche metro e batto in ritirata,
prestissimo possibile come diceva qualche compositore tedesco. Vedo
che i due compagni saggiamente si sono avviati, ci troviamo qualche ripiano
piú in basso, e la spedizione si conclude sotto la pioggia battente,
con le erbe piegate dall'acqua sul sentiero ci infradiciano fino alle
mutande. Grazie soprattutto alla furbizia che abbiamo entrambi di
lasciare i copripantaloni nello zaino. Quando la sorella di Pier Marco mi
vede girare, quale primo reduce dalla Lera, in mutande per le vie
fortunatamente deserte di Versino, si mette a ridere, e il fenomeno
è praticamente irreversibile. Il resto del pomeriggio lo si passa
entro un raggio di due metri dal fornello a kerosene.
Il giorno seguente ci vede in viaggio per Chivasso, dove la sorella di Pier
Marco comprerà una nuova stufa, e io prenderò il treno.
Detto per inciso, è la piú bella giornata dell'estate, dal
Monviso al Monte Rosa è una magnifica parata di cime innevate di
fresco. Ma non poteva finire cosí; puntuale sopra la stazione di
Marter si fa trovare un nero temporale. Altrimenti non sarei stato onesto
dicendo di aver preso pioggia ogni giorno.
Riassunto
In questo racconto abbiamo visto - o, piú spesso, immaginato tra le nuvole - i maggiori
massicci alpini. Abbiamo visto nascere l'Oglio, l'Adda, l'Inn, il Reno, la
Reuss, l'Aare, il Rodano, il Ticino. Non un solo giorno è mancata la
pioggia, non un solo giorno è mancato il sole. Dal passamontagna al
costume da bagno, niente è rimasto inutilizzato. Va da sé
che, se anche il racconto fosse riuscito poco vario, il giro non lo è
stato. I km sono stati 1131 km, circa 28500 i metri di salita, per una pendenza
media del 5 per cento. Sedici valichi: Ampola, Giogo di Bala - Croce Dominii,
Gavia, Alpisella, Forcola di Livigno, Bernina, Albula, Oberalp, Susten,
Grimsel, Furka, Gottardo, Nufenen, Folungo, Bocchetta di Sessera, Colma
di Oropa.
Sei cime: San Matteo m 3678, Piz Blaisun 3210 metri, Gross Muttenhorn m 3099,
monte Zeda 2156 metri, Rocciamelone 3538 metri, Lera 3358 metri.
Le cime piú belle: Zeda e Rocciamelone.
I tratti imperdibili, limitandosi a oro argento e bronzo:
la traversata Anfo - Baremone - Maniva - Croce Dominii;
il Passo Susten; la strada panoramica sopra il Lago Maggiore.